La caduta di Fanfani

«VOLETE il divorzio? Allora dovete sapere che, dopo, verrà l' aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!». Eruttava fuoco e fiamme Amintore Fanfani, quel 26 aprile 1974, nel teatro comunale di Caltanissetta. Tre mesi prima aveva compiuto i 66 anni. Ma possedeva i propulsori energetici di un quarantenne. e AVEVA il sarcasmo assatanato di un guerriero politico sui trent' anni. Del resto, in guerra si sentiva, il Mezzotoscano, il Nano Maledetto, il Fanfascista, come lo bollavano le sinistre antagoniste del tempo. Non sapendo che, invece di deprimerlo, lo eccitavano. Un giorno, in piazza Sturzo, dove sorgeva il santuario maggiore della Dc, il Professore mi ringhiò sorridendo: «Continui pure a scrivere contro di me. Faccia conto che sia io a pagarle ogni suo articolo...». Anche nella battaglia per abrogare la legge Baslini-Fortuna che istituiva il divorzio, Fanfani si dimostrò più che mai se stesso. Ossia un politico con un formidabile complesso di superiorità. Indisponente. Ispido. Iracondo. Schiumante. Con la sfuriata facile. E con la battuta alla nervo di bue, una frustata che mandava ko l' avversario. Si considerava nato per comandare. Da bambino, al paese natale, Pieve Santo Stefano, se gli amici giocavano a fare il prete, lui proclamava: «Io farò il vescovo!». Anni dopo, quando nella Dc pensavano di giubilarlo per anzianità, sogghignava così: «Chi nasce bischero, resta bischero anche se è giovane». Nella Dc lo temevano, tanto da battezzarlo "il Tiranno". Ma lui considerava gli altri capi bianchi degli uomini di paglia. Aldo Moro faceva dormire. Ciriaco De Mita parlava turco e senza interprete. Mariano Rumor era un abate gommoso. Arnaldo Forlani, detto "Perequil", rappresentava l' eterno ritorno del sempre uguale. Toni Bisaglia, superbo nel gestire il potere, incespicava nelle parole più semplici. Insomma, il «Nano maledetto-fascista perfetto», era un tipo umano di cui si è persa la razza, nella politica di oggi. Chi gli assomiglia? Silvio Berlusconi? Ma in un confronto alla tivù, il Tiranno l' avrebbe fatto secco. E Fausto Bertinotti? Al tappeto nel primo round. La coppia Fassino & Rutelli? Al pronto soccorso dopo dieci minuti. Massimo D' Alema? Ecco, forse lui sarebbe stato capace di resistergli: sarcasmo contro sarcasmo, carognata su carognata. Dunque, stava scritto negli astri che l' ultima battaglia contro il divorzio toccasse al Mezzotoscano. Ridiventato segretario della Dc il 17 giugno 1973, volle prendere sulle sue spalle tutto il peso dello scontro. Un accordo interno alla Dc aveva deciso l' astensione dai comizi di Rumor, presidente del Consiglio, di Paolo Emilio Taviani, ministro dell' Interno e di Moro, che stava agli Esteri. E Fanfani concluse: farò io, e farò bene! Pensava davvero che il divorzio fosse il diavolo capace di distruggere, con le famiglie, la società italiana? Forse sì. Disse a Guido Quaranta, di Panorama: «La legge sul divorzio è un ingombrante rottame di cui dobbiamo liberarci». Ma il suo obiettivo primario era un altro: stravincere sul campo della lotta politica. Come aveva fatto Alcide De Gasperi il 18 aprile 1948, «un evento che ricordo volentieri» azzannava Fanfani, «e che disturba molta gente». Adesso il suo nemico era il Pci di Enrico Berlinguer. Un partito in ascesa, guidato da un leader che era l' opposto del Mezzotoscano, «una pericolosa gattamorta» a sentire Giampaolino Cresci, l' affannato-butirroso porta parola del Professore. Per ottenere il bis del Quarantotto, Fanfani chiamò alle armi tutto il centro-destra italico. Ma i partiti laici si mostrarono refrattari. E, a conti fatti, l' unico vero alleato del Professore si rivelò il Msi di Giorgio Almirante. Che dichiarò subito l' obiettivo della campagna per il Sì abrogazionista, con una serie di slogan che non lasciavano dubbi. Il primo gridava: «12 maggio: plebiscito del Sì, plebiscito anticomunista, per impedire al Pci di andare al potere». La guerra di Fanfani partì male. Sotto l' incubo di un sondaggio Doxa che diceva: 50,3 per cento di No, 35,7 di Sì, 14 di incerti. Ma non esistevano pronostici in grado di deprimere il Professore. Spiegò ai suoi che la volontà e l' attivismo potevano ribaltare qualunque previsione. Riconfermò la certezza di vincere. E arrivò a immaginare, così dissero, quel che avrebbe fatto dopo il trionfo del Sì: elezioni anticipate, riforma istituzionale, repubblica presidenziale. Una sicurezza blindata, ma con un verme nascosto. Con il senno di poi, mi azzardo a scrivere che Fanfani avrebbe dovuto scorgerlo all' istante. L' Italia stava mutando. Era già esploso il Sessantotto. Poi l' autunno caldo. Quindi il dilagare del femminismo. Dappertutto emergeva una gran voglia di cambiare, confusa, incoerente, velleitaria, però vera. Un terremoto in arrivo. Il Mezzotoscano poteva fermarlo? Lui s' illuse di sì. E scelse come campo di battaglia quella parte del paese che più gli assomigliava: il Mezzogiorno. Dopo un passaggio a Bologna e a Roma, Fanfani cominciò la discesa al Sud. Ad Ancona gli andò male, perché la sinistra antagonista lo insultò e gli tagliò i fili del microfono. Poi iniziò a battere l' Abruzzo, la Puglia, la Calabria, sempre in automobile e a ritmi sfiancanti. Era la fine di aprile. A Taranto fu accolto da folle osannanti. E disse alle donne presenti: «Oggi, dopo una scappatella, i vostri mariti tornano a casa. Domani, con il divorzio, chissà!». A Bari, al teatro Petruzzelli, stracolmo di tifosi, ammonì: «Non ci si sposa soltanto per godere». Poi commiserò i nonni costretti a fare i baby-sitters dei nipoti abbandonati. Proprio a Bari, si alzò un «collega nonno» che gli raccontò di averne cinquantatré, di nipoti. Fanfani gli regalò una risata sarcastica: «Ve lo immaginate questo povero nonnino, se per avventura tutti i suoi figli divorziassero?». A Cosenza, feudo del socialista Giacomo Mancini, trovò un po' di freddezza. A Reggio Calabria, nel pomeriggio del 24 aprile, fu costretto a battagliare con i suoi alleati del Msi, che gli chiedevano l' amnistia per i boia-chi-molla della rivolta. In Sicilia ebbe un successone. Parlando dovunque di corna. E leggendo la lettera di una signora divorziata e ammalata, con il marito peccatore morto prima di lei, rimasta sola e senza più diritto alla pensione di reversibilità. A Enna infiammò la platea parlando della famiglia come «strumento di progresso, garanzia di continuità fecondatrice della terra genitrice, focolare capace di riscaldare idee e affetti, culla della santità più fervida». A Caltanissetta, i suoi fans andarono in delirio alla storia della moglie che scappa con la serva. Ad Agrigento garantì di non andare in cerca di avventure se, dopo il 12 maggio, con gli alleati di centro-sinistra «le cose si fossero aggiustate». A Palermo, il 27 aprile, riuscì a destreggiarsi tra i vari potentati dicì, primo fra tutti quello andreottiano di Salvo Lima. E anche qui spiegò che l' obiettivo del Pci era «di eliminare ogni ostacolo democratico verso le luminose mete di cui Praga ci ha offerto l' ultimo esempio». Fanfani ritornò a Roma convinto di aver ribaltato i sondaggi? Forse no. Il fronte divorzista si stava rivelando sempre più forte. Andava da Berlinguer a Ugo La Malfa, da Giuseppe Saragat a Francesco De Martino, passando anche per qualche dicì come Piero Bassetti. E il voto del 12 maggio gli confermò che aveva perso: i No all' abrogazione della legge erano il 59,3 per cento, i Sì soltanto il 40,7. In cifre assolute, 19 milioni di voti contro 13 milioni. Ma sul Mezzogiorno, il Professore aveva visto giusto: il Sì aveva vinto in Molise, in Campania, in Puglia, in Basilicata, in Calabria. E in Sicilia aveva perso soltanto per un pelo. Quel voto fu l' inizio della caduta di Fanfani. L' anno successivo, le Regionali del 15-16 giugno videro il trionfo del Pci (33,4 per cento dei voti contro i 35,3 della Dc). L' Italia fiorì di giunte rosse. Fanfani, che si era speso in duecentodieci comizi in meno di due mesi, fu costretto a dimettersi. Segretario della Dc divenne Benigno Zaccagnini. Di quei giorni convulsi, nel caldo torrido di fine luglio 1975, mi sono rimaste due immagini. La protesta degli autisti dei capi bianchi, non tamburi bensì clacson nella notte di piazza Sturzo. E il grido rivolto a noi cronisti dal milanese Massimo De Carolis: «Stiamo morendo. Ma ci rimpiangerete. Io vi dico che rimpiangerete la Dc!».

GIAMPAOLO PANSA