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Dio: differenze tra le versioni

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==Dio nella [[fenomenologia della religione]]==
==Dio nella [[fenomenologia della religione]]==
L'uso del termine "Dio" può risultare problematico vista la comune applicazione ad ambiti storicamente e culturalmente diversi, tuttavia la [[fenomenologia della religione]] ha ritenuto di individuare un'origine condivisa di tali significati, collocabile nella comune esperienza del [[sacro]] e della sua "potenza":
Il termine "Dio" si applica ad ambiti storicamente e culturalmente diversi e non è quindi facilmente definibile. La [[fenomenologia della religione]] ha comunque ritenuto di individuare un'origine condivisa di tali significati, collocabile nella comune esperienza del [[sacro]] e della straordinarietà della sua potenza. La complessità della definizione, così come la tensione dell'esperienza religiosa verso qualcosa di altro, collocato "altrove", è efficacemente descritta dal [[teologia|teologo]] olandese [[Gerardus van der Leeuw]]<ref>Su van der Leeuw cfr. anche Roberto Cipriani, ''Manuale di Sociologia della Religione'', Borla, 1997, pagg. 140-142</ref>:


{{q|Quando diciamo che ''Dio'' è l'oggetto dell'esperienza religiosa vissuta, dobbiamo tener presente che ''Dio'' è spesso una nozione assai poco precisa; molte volte questa nozione non si identifica affatto con quel che abitualmente intendiamo per Dio. L'esperienza religiosa vissuta si riferisce a qualche cosa: in molti casi è impossibile dire più di questo, e perché l'uomo possa a attribuire a questo ''qualche'' cosa un qualsiasi predicato, è necessario che venga costretto a rappresentarselo come qualche cosa di ''diverso''. Sull'oggetto della religione quindi si potrà dire anzitutto questo: è qualche cosa di ''diverso'', ''che sorprende''. Con [[Nathan Söderblom|Söderblom]], è il caso di trovare la meraviglia all'inizio non solo della filosofia, ma anche della religione. Finora non si parla affatto di soprannaturale o di trascendente, anzi si può parlare di ''Dio'' soltanto in modo improprio; abbiamo soltanto un'esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce. Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest'oggetto esce dall'ordinario. E ciò risulta dalla ''potenza'' che l'oggetto sprigiona. |[[Gerardus van der Leeuw]]. ''Phanomenologie der Religion'' (1933). In italiano:''Fenomenologia della religione''. Torino, Boringhieri, 2002, pagg.7-8}}
{{q|Quando diciamo che ''Dio'' è l'oggetto dell'esperienza religiosa vissuta, dobbiamo tener presente che ''Dio'' è spesso una nozione assai poco precisa; molte volte questa nozione non si identifica affatto con quel che abitualmente intendiamo per Dio. L'esperienza religiosa vissuta si riferisce a qualche cosa: in molti casi è impossibile dire più di questo, e perché l'uomo possa a attribuire a questo ''qualche'' cosa un qualsiasi predicato, è necessario che venga costretto a rappresentarselo come qualche cosa di ''diverso''. Sull'oggetto della religione quindi si potrà dire anzitutto questo: è qualche cosa di ''diverso'', ''che sorprende''. Con [[Nathan Söderblom|Söderblom]], è il caso di trovare la meraviglia all'inizio non solo della filosofia, ma anche della religione. Finora non si parla affatto di soprannaturale o di trascendente, anzi si può parlare di ''Dio'' soltanto in modo improprio; abbiamo soltanto un'esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce. Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest'oggetto esce dall'ordinario. E ciò risulta dalla ''potenza'' che l'oggetto sprigiona. |[[Gerardus van der Leeuw]]. ''Phanomenologie der Religion'' (1933). In italiano:''Fenomenologia della religione''. Torino, Boringhieri, 2002, pagg.7-8}}

Versione delle 01:22, 15 nov 2012

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Disambiguazione – Se stai cercando altre voci che possono riferirsi alla stessa combinazione di 3 caratteri, vedi DIO.

Con il termine Dio si intende indicare un'entità superiore dotata di potenza straordinaria, variamente denominata e significata nelle diverse culture religiose[1].

Lo studio delle sue differenti rappresentazioni e del loro procedere storico è oggetto della scienza delle religioni oltre che, ad esempio, della storia e della fenomenologia della religione.

L'esistenza, la natura e l'esperienza di Dio sono oggetto di riflessione delle teologie e di alcuni ambiti filosofici come la metafisica, ma si riscontra anche in altri ambiti culturali (per esempio, la letteratura o l'arte), alcuni di essi non necessariamente collegati con la pratica religiosa.

Il termine "Dio" si applica ad ambiti storicamente e culturalmente diversi e non è quindi facilmente definibile. La fenomenologia della religione ha comunque ritenuto di individuare un'origine condivisa di tali significati, collocabile nella comune esperienza del sacro e della straordinarietà della sua potenza. La complessità della definizione, così come la tensione dell'esperienza religiosa verso qualcosa di altro, collocato "altrove", è efficacemente descritta dal teologo olandese Gerardus van der Leeuw[2]:

«Quando diciamo che Dio è l'oggetto dell'esperienza religiosa vissuta, dobbiamo tener presente che Dio è spesso una nozione assai poco precisa; molte volte questa nozione non si identifica affatto con quel che abitualmente intendiamo per Dio. L'esperienza religiosa vissuta si riferisce a qualche cosa: in molti casi è impossibile dire più di questo, e perché l'uomo possa a attribuire a questo qualche cosa un qualsiasi predicato, è necessario che venga costretto a rappresentarselo come qualche cosa di diverso. Sull'oggetto della religione quindi si potrà dire anzitutto questo: è qualche cosa di diverso, che sorprende. Con Söderblom, è il caso di trovare la meraviglia all'inizio non solo della filosofia, ma anche della religione. Finora non si parla affatto di soprannaturale o di trascendente, anzi si può parlare di Dio soltanto in modo improprio; abbiamo soltanto un'esperienza vissuta, collegata al diverso che stupisce. Lungi dal prospettare la minima teoria e neppure la più elementare generalizzazione, ci contentiamo della constatazione empirica: quest'oggetto esce dall'ordinario. E ciò risulta dalla potenza che l'oggetto sprigiona.»

«Infine, la relazione degli uomini con questa potenza è caratterizzata dallo stupore, dal timore, in casi estremi dallo spavento (Marett usa qui la bella parola inglese awe). Questo perché la potenza è considerata non soprannaturale ma straordinaria, diversa. Gli oggetti e le persone investiti di potenza hanno una natura specifica, quella che noi chiamiamo sacra

Sempre in ambito fenomenologico-religioso si è ritenuto di individuare delle costanti nei significati e nelle rappresentazioni attribuite al "Dio" inteso come Essere supremo nelle differenti culture:

«Quel che non ammette alcun dubbio è la quasi-universalità della credenza in un Essere divino celeste, creatore dell'Universo e garante della fecondità della terra (grazie alle piogge che versa). Questi Esseri sono dotati di prescienza e sapienza infinite, hanno instaurato le leggi morali, spesso anche rituali del clan, durante la loro breve dimora sulla terra; sovrintendono all'osservanza delle leggi, e fulminano con la folgore chi le viola.»

«Una delle maggiori conquiste dell'attuale ricerca storico-religiosa va senz'altro considerata la dimostrazione che quasi tutti i popoli, quelli senza scrittura e quelli civilizzati, hanno una fede in Dio. La fede in Dio rappresenta dunque il punto centrale della religione. Questa fede presenta, com'è ovvio, i caratteri più disparati da una religione all'altra; ma si possono osservare delle tipiche varianti che ricorrono con sorprendente regolarità nel corso della storia delle religioni. Grosso modo avviene questo: le specie principali di fede in Dio a noi note si distribuiscono attraverso l'intero spettro delle varie religioni storiche, cosicché non è in base a una diversa forma di fede nella divinità che l'una religione si distingue dall'altra. È dato invece di rilevare che spesso in una stessa religione coesistono diverse immagini e concezioni della stessa divinità.»

I nomi di "Dio": i loro significati e le loro origini

Ideogramma sumerico per esprimere il sostantivo dingir, termine che indica una divinità e per questo veniva utilizzato come classificatore grafico, anteponendolo al nome del dio stesso.
Evoluzione del tetragramma biblico YHWH, nome personale del Dio della Bibbia, dall'alfabeto fenicio all'attuale ebraico.
File:Allah 1.jpg
Il nome di Dio scritto nella Calligrafia araba. Nell'Islam è considerato peccato antropomizzare la figura di Dio
File:TheosAgape.jpg
Una stele del Monte Nebo che recita in greco "Dio è amore" (ὁ θしーたεいぷしろんὸς ὰγάπη ἐστίν[3]). La prima traduzione dell'ebraico אלוהים (Elohim) al greco θしーたεいぷしろんὸς (Theos) la si deve alla traduzione del Tanakh (Bibbia ebraica) in quella greca detta Septuaginta, avvenuta probabilmente nel III sec. a.C. ad opera di dotti ebrei alessandrini.

I nomi utilizzati per indicare questa "entità superiore" dotata di potenza straordinaria sono numerosi tanto quanto numerose sono le lingue e le culture, con le loro origini.

  • Nelle lingue di origine latina come l'italiano (Dio), il francese (Dieu) e lo spagnolo (Dios), il termine deriva dal latino Deus (a sua volta collegato ai termini, sempre latini, di divus-"splendente" e dies-"giorno") proveniente dal termine indoeuropeo ricostruito *deiwos. Il termine "Dio" è connesso quindi con la radice indoeuropea: *div/*dev/*diu/*dei, che ha il valore di "luminoso, splendente, brillante, accecante", collegata ad analogo significato con il sanscrito dyáuh. Allo stesso modo si confronti il greco δでるたῖος e il genitivo di Ζεύς [Zeus] è Διός [Diòs], il sanscrito deva, l'aggettivo latino divus, l'ittita šiu.
  • Nelle lingue di origine germanica come l'inglese (God), il tedesco (Gott), il danese (Gud), il norvegese (Gud), lo svedese (Gud), sono relazionati all'antico frisone, all'antico sassone e all'olandese medievale Got; all'antico e al medievale alto germanico Got; al gotico Gut; all'antico norvegese Guth e Goth nel probabile significato di "invocato". Maurice O'C Walshe[4] lo relaziona al sanscrito -hūta quindi *ghūta (invocato). Quindi forse da relazionare al gaelico e all'antico irlandese Guth (voce) e all'antico celtico *gutus (radice *gut)[5].
  • Nella lingua greca, antica e moderna, il termine è Theós (θεός; pl. theoí Θεοί). L'origine è incerta[6]. Émile Benveniste, tuttavia, nel suo Le Vocabulaire des institutions indo-européennes [7] collega theós a thes- (relazionato sempre al divino)[8] e questo a *dhēs che si ritrova nel plurale armeno dikc (gli "dèi", -kc è il segno plurale). Quindi per Émile Benveniste: «è del tutto possibile -ipotesi già avanzata da tempo- che si debba mettere in questa serie Theós 'Dio' il cui prototipo più verosimile sarebbe proprio *thesos. L'esistenza dell'armeno dikc 'dèi' permetterebbe allora di formare una coppia lessicale greco armena[9]».
  • In ambito semitico il termine più antico è ʾEl (in ebraico אל), corrispondente all'accadico Ilu(m) (cuneiforme accadico ) e al cananaico ʾEl o ʾIl (fenicio ), la cui etimologia è oscura anche se sembrerebbe collegata alla nozione di "potenza" [10].
  • Nell'ambito della letteratura religiosa ebraica i nomi con cui viene indicato Dio sono: il già citato ʾEl; ʾEl ʿElyon (ʿelyon nel significato di "alto" "più alto"); ʾEl ʿOlam ("Dio Eterno"); ʾEl Shaddai (significato oscuro, forse "Dio Onnipotente"); ʾEl Roʾi (significato oscuro, forse "Dio che mi vede"); ʾEl Berit ("Dio dell'Alleanza"); ʾEloah, (plurale: ʾElohim , meglio ha-ʾElohim il "Vero Dio" anche al plurale quindi ; ha per distinguerlo dalle divinità delle altre religioni o anche ʾElohim ḥayyim, con il significato di "Dio vivente"); ʾAdonai (reso come "Signore") e YHWH (il nome personale del Dio di Israele).
  • Nell'ambito della letteratura religiosa arabo musulmana il nome di Dio è Allāh (الله) riservando il nome generico di ilāh ( إله; nel caso del Dio unico allora al-Ilāh il-Dio) per le divinità delle altre religioni. Il termine arabo Allāh viene probabilmente dall'aramaico Alāhā[11]).
  • Nella lingua sumerica il grafema distintivo della divinità è (dingir) probabilmente inteso come "centro" da cui la divinità si irradia [12].
  • Nella cultura religiosa sanscrita, fonte del Vedismo, del Brahmanesimo e dell'Induismo, il nome generico di un dio è Deva ( देवता) riservando, a partire dall'Induismo, il nome di Īśvara (ईश्वर, "Signore", "Potente", dalla radice sanscrita īś "avere potere") alla divinità principale[13]. il termine Deva è correlato, come ad esempio il termine latino Deus, alla radice indoeuropea già citata richiamante lo "splendore", la "luminosità". In tale alveo la divinità femminile si indica con il nome di Devī, termine che indicherà con la Mahādevī (Grande Dea) un principio femminile primordiale e cosmico di cui le singole divinità femminili non sono che manifestazioni[14].
  • Nella cultura religiosa iranica preislamica termine utilizzato è Ahura acquisendo il nome di Ahura Mazdā (persiano اهورا مزدا) l'unico Dio del monoteismo zoroastriano[15].
  • Il carattere cinese per "Dio" è しん (shén). Esso si compone al lato sinistro di しめせ ( shì "altare" oggi nel significato di "mostrare") a sua volta composto da ひのと (altare primitivo) con ai lati 丶 (gocce di sangue o di libagioni). E a destra さる (shēn, giapp. shin o mōsu) sta per "dire" "esporre" qui meglio come "illuminare", "portare alla luce". Quindi ciò che dall'altare conduce alla chiarezza, alla luce, Dio. Rende il sanscrito deva e da questo deriva sia il lemma giapponese di carattere identico ma pronunciato come shin sia quello coreano 신 (sin) e il termine vietnamita thân. Anche il tibetano lha. Quindi 天神てんじん (tiānshén, giapp. tenjin, tennin, coreano 천신 ch'ŏnsin vietnamita thiên thần: Dio del Cielo) dove al già descritto carattere しん si aggiunge てん (tiān, giapp. ten) col significato di "cielo", "celeste", dove si mostra ciò che è in "alto" è "grande" (だい persona con larghe braccia e grandi gambe ad indicare ciò che è "largo", "grande").

La nozione di “Dio” nella Storia e nelle culture religiose

La nozione nel mondo dei Sumeri

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Sumeri).

La nozione nel mondo degli Egizi

La nozione nel mondo degli Ittiti

La nozione nel mondo dei Babilonesi

La nozione nell'Iran antico e nell'Avestā

La nozione nell'Ebraismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Ebraismo).

La nozione nella Religione greca

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Greci).

La nozione nella Religione romana

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Romani).

La nozione nel Cristianesimo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Cristianesimo).

La nozione nello Gnosticismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Gnosticismo).

La nozione nel Manicheismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Manicheismo).

La nozione nell'Islām

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Islām).

La nozione nell'Induismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Induismo).

La nozione nel Buddhismo

Lo stesso argomento in dettaglio: Dio (Buddhismo).


Wicca

Nella religione Wicca il divino viene concepito come immanente. In particolare il Dio è la controparte maschile della Dea. Da notare come in questa religione entrambe le entità siano chiamate con la "D" maiuscola e rappresentino le due metà dell'energia primordiale. Essi simboleggiano infatti due principi cosmici contrapposti, ma complementari, dalla cui unione dipende il continuo e ciclico divenire del mondo. Il Dio è infatti la forza maschile e incarna tutti gli uomini, la loro fertilità e amore. Egli è nelle foreste, nei suoi alberi secolari, nell'intricata vegetazione e negli animali selvaggi. In particolare gli animali con le corna, come il cervo e il toro, sono legati al Dio. Il Dio è simbolo di morte e di rinascita, e la sua vicenda mitica segue la Ruota dell'Anno: nasce a Yule, si manifesta ad Imbolc, si accoppia con la Dea a Beltane, muore a Lammas, la Dea lo visita nell'aldilà a Samhain ed a Yule è pronto a nascere di nuovo. La Dea è invece la forza femminile, da cui deriva l'universo ed è quindi anche simbolo di maternità: Essa incarna tutte le donne, la loro fertilità e amore. La Dea ha tre aspetti che corrispondono alle tre fasi della vita: Fanciulla, Madre e Anziana.

Riflessioni filosofiche sulla nozione di "Dio"

Filosofia greca

I Greci si posero anche il problema dell'esistenza di Dio. Numerosi filosofi si occuparono, più o meno indirettamente, della questione. Nei presocratici ad esempio la filosofia naturalistica, che dominava sulle altre, spesso condusse alla ricerca di un principio primo o archè, sia nei filosofi di Mileto che in Eraclito, oppure ad un Essere come negli eleati (Parmenide su tutti). Anassagora riteneva l'universo mosso da un'intelligenza suprema (Nous), mentre Democrito sembrava non contemplare l'idea di un disegno divino nel cosmo.

Socrate, come riporta Senofonte nei Memorabili, fu particolarmente votato all'indagine sul divino: svincolandolo da ogni interpretazione precedente, lo volle caratterizzare come "bene", "intelligenza" e "provvidenza" per l'uomo.[16] Egli affermava di credere in una particolare divinità, figlia degli dèi tradizionali, che indicava come dáimōn: uno spirito-guida senza il quale ogni presunzione di sapere è vana. In Socrate infatti ricorre spesso il tema della sapienza divina più volte contrapposta all'ignoranza umana.[17] Concetto ribadito anche a conclusione della sua Apologia:

«Ma ecco è l'ora di andare, per me di andare a morire, e per voi di continuare a vivere; chi di noi vada verso un migliore destino è oscuro a tutti, fuori che a Dio.»

Platone parla di Dio in molti dei suoi Dialoghi. Nella Repubblica, per esempio, fa una critica alle visioni del tempo, secondo le quali Dio (o gli dèi) era presentato con molti vizi umani. Nel libro X delle Leggi tenta di articolare una prova dell'esistenza di Dio partendo dal movimento e dall'anima, e difende in modo preciso l'idea di una provvidenza divina rispetto al mondo umano.

Aristotele giungerà a dimostrare la necessità filosofica di Dio come motore immobile, causa prima non causata. Egli suddivideva le scienze in tre rami:

  • fisica, in quanto studio della natura;
  • matematica, o studio dei numeri e delle quantità;
  • e teologia, da lui giudicata la più eccelsa delle scienze,[18] dato che il suo argomento, Dio e le sostanze separate, rappresenta l'essere più alto e degno di venerazione.

Secondo Aristotele solo il divino è vero essendo «fisso e immutabile»; l'essere vero, come già in Parmenide e Platone, è ciò che è «necessario», perfetto, quindi stabile, non soggetto a mutamenti di nessun genere. Il divenire invece è una forma inferiore di realtà che si può anche studiare, ma non conduce ad alcun sapere universale.

«Se esiste qualcosa di eterno ed immobile separabile dalla materia, è evidente che la conoscenza di esso concerne una scienza teoretica che non è la fisica né la matematica, ma di una scienza superiore, la teologia. [...] Se la divinità è presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta [eterna e immutabile], ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando.»

La filosofia nel senso più alto era quindi da lui intesa solo come "scienza del divino", ovvero «scienza dell'essere in quanto essere»[19], distinto dall'«essere per accidente»[20] che concerne la semplice realtà naturale e percepibile. Ad esempio la filosofia naturalistica come quella di Talete e Anassimandro, di Leucippo e di Democrito, era per lui solo una forma di sotto-conoscenza dell'accidentale, del precario e del particolare.

«Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col Bene, e sotto tale profilo è principio assoluto. [...] Se perciò Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso, e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia maggiore. Ma Dio è appunto in tale stato!»

Deismo

La visione deista di Dio sottintende la convinzione di poter giustificare razionalmente l'esistenza di Dio, tipo di visione diffusasi soprattutto nell'età dell'Illuminismo. Deista era, per esempio, Voltaire.

Il deismo ritiene che l'uso corretto della ragione consenta all'uomo di elaborare una religione naturale e razionale completa ed esauriente, capace di spiegare il mondo e l'uomo. Esso prescinde completamente da ogni rivelazione positiva e le si oppone, basandosi su alcuni principi elementari, primo fra tutti quello dell'esistenza della divinità come base indispensabile affermare per spiegare l'ordine, l'armonia e la regolarità nell'universo.

Il concetto alla base del deismo, quello di una divinità eminentemente creatrice, ma anche ordinatrice e razionalizzatrice, è immediatamente utilizzabile, nell'ambito della classificazione tra teoetotomie e religioni ed in ottica etnologica, per identificare questi secondi modelli rispetto alle prime. In una religione rivelata infatti la divinità non esplica solo una funzione creatrice ma anche quella di censore/supervisore etico dell'uomo. Questa modalità di intendere il profilo della divinità è una modalità contingente che si può ritrovare solo su sistemi di culto connessi con modelli sociali di tipo classistico. Il passaggio da modelli deistici a modelli teoetotomistici, corroborato da varie evidenze antropologiche, è stato invocato per spiegare il mito del peccato originale. Questa trasformazione socio culturale può essere infatti invocata per interpretare il passaggio dalla condizione anteriore alla manducazione del pomo dell'albero, detto dall'agiografo della conoscenza del bene e del male, in cui l'uomo, vivendo in contesti deistici non era in grado di sperimentare la condizione di conoscenza di eventuali gesti e scelte da intendere quale opposizione alla volontà della divinità (male) da gesti e atteggiamenti graditi alla stessa (bene). Le forme deistiche, non teoetotomistiche, non contemplano infatti alcun concetto di peccato/corruzione/impurità. Questo implica che in esse la sfera etica sia sottratta dall'ambito confessionale, di fede. L'uomo dunque non può conoscere il bene e il male. È immediata la possibilità di identificare questa valenza nel nome dato all'albero in questione. La conoscenza del bene e male, vere e proprie categorie teologiche, è infatti possibile solo in un contesto dove la divinità emani norme e leggi o principi etici a cui l'individuo si deve attenere, pena l'incorrere in sanzioni/condanne.

La concezione deistica, nata in un'epoca fortemente segnata dalle guerre di religione, intende così, mediante il solo uso della ragione, porre fine ai contrasti fra le varie religioni rivelate in nome di quell'univocità della ragione, sentita, in particolare nell'ottica dell'illuminismo, come l'unico elemento in grado di accomunare tutti gli esseri umani.

Nomi e titoli di Dio

Lo stesso argomento in dettaglio: Nomi di Dio nell'ebraismo e Tetragramma biblico.
Evoluzione del tetragramma dall'alfabeto fenicio all'attuale ebraico

Dio traduce l'ebraico El (nome anche di una divinità fenicia), Eloah, ed Elohim (grammaticalmente plurale, da cui varie ipotesi su di un politeismo originario). Si trova nei testi che lo studio filologico fa risalire alla corrente eloista del Pentateuco. La stessa radice si ritrova nell'ebraico e poi cristiano Elia e nell'attributo di Gesù come Em-anu-el (Dio-con-noi); ed anche nell'islamico Allah. A testimonianza dell'origine comune di cristianesimo, islam ed ebraismo, i loro nomi di Dio condividono la stessa origine. Il nome che appare più spesso nella Bibbia ebraica è quello composto dalle lettere ebraiche י (yod) ה (heh) ו (vav) ה (heh) o tetragramma biblico (la scrittura ebraica è da destra a sinistra). Gli ebrei si rifiutano di pronunciare il nome di Dio presente nella Bibbia, cioè י*ה*ו*ה (tetragramma biblico) per tradizioni successive al periodo post esilico e quindi alla stesura della Torah. L'ebraismo insegna che questo nome di Dio, pur esistendo in forma scritta, è troppo sacro per essere pronunciato. Tutte le moderne forme di ebraismo proibiscono il completamento del nome divino, la cui pronuncia era riservata al Sommo Sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme. Poiché il Tempio è in rovina, il nome non è attualmente mai pronunciato durante riti ebraici contemporanei. Invece di pronunciare il tetragramma durante le preghiere, gli ebrei dicono Adonai, cioè "Signore". Nelle conversazioni quotidiane dicono HaShem (in ebraico "il nome", come appare nel libro del Levitico XXIV,11) quando si riferiscono a Dio. Per tale ragione un ebreo osservante scriverà il nome in modo modificato, ad esempio come D-o. Gli ebrei oggi durante la lettura del vecchio testamento o Tanach quando trovano il tetragramma (presente circa 6000 volte) non provano a pronunciarlo. Con il tempo l'esatta pronuncia del tetragramma si è persa. La forma Yehowah è la vocalizzazione di alcuni studiosi detti masoreti che nel Medioevo produssero una versione della Bibbia vocalizzata. Da questa forma deriva l'italiano Geova, (vedi. Testimoni di Geova ).

Nel Corano, il libro, sacro dell'Islam, l'Essere supremo rivela che i suoi nomi sono Allāh e Rahmān, resi dal termine Iddio ("il" + "Dio") nella lingua italiana. La cultura islamica parla di 99 "Bei Nomi di Dio" (al-asmā‘ al-husnà), che formano i cosiddetti nomi teofori, abbondantemente in uso in aree islamiche del mondo: 'Abd al-Rahmān, 'Abd al-Rahīm, 'Abd al-Jabbār, o lo stesso 'Abd Allāh, formati dal termine "'Abd" ("schiavo di"), seguito da uno dei 99 nomi divini.

Dio nella letteratura

La figura di Dio è il tema centrale di molte opere della letteratura mondiale.

  • Dante Alighieri, poeta fiorentino del XIII secolo e padre della lingua italiana, nel XXXIII canto del Paradiso della Divina Commedia nel verso 145, si riferisce a Dio con queste parole: «L'Amor che move il sole e l'altre stelle».
  • Kabir, poeta e mistico hindu del XV secolo, nella sua raccolta denominata Sākhī[22] (Testimonianza) così si esprime: «Canta la gloria di Dio, e la tua bocca si colmerà di dolcezza, mentre la Sua benevolenza ti scalderà l'anima. Il nome che pronunci legherà il tuo spirito al Parmātmā[23]».

Note

  1. ^ Cfr. ad es. Mario Bendiscioli. Dio in Filosofia. Milano, Garzanti, 2007, pag.266
  2. ^ Su van der Leeuw cfr. anche Roberto Cipriani, Manuale di Sociologia della Religione, Borla, 1997, pagg. 140-142
  3. ^ Cfr. 1 Giovanni 4,8.
  4. ^ Cfr. Maurice O'C Walshe. A Concise German Etymological Dictionary. London, Broadway House, 1952.
  5. ^ Cfr. Eric Partridge. God in Origins. Londra e NY, Routledge, 2007
  6. ^ Dopo una disamina sulle possibili connessioni, Pierre Chantraine nel suo Dictionnaire étymologique de la langue grecque Tomo II, Parigi, Klincksiec, 1968 pag. 430, così conclude

    «Finalement l'ensemble reste incertain»

  7. ^ 2 voll., 1969, Paris, Minuit. Ed. italiana (a cura di Mariantonia Liborio) Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1981
  8. ^ Quindi thésphatos (stabilito da una decisione divina), thespéios ('meraviglioso' inerente al canto delle sirene, "enunciato di origine divina"), théskelos (più incerto, "prodigioso o divino")
  9. ^ Crf. Volume II, pag. 385.
  10. ^

    «The oldest Semitic term for God is ʾel (corresponding to Akkadian ilu(m), Canaanite ʾel or ʾil, and Arabic ʾel as an element in personal names). The etymology of the word is obscure. It is commonly thought that the term derived from a root ʾyl or ʾwl, meaning “to be powerful” (cf. yesh le-el yadi, “It is in the power of my hand,” Gen. 31:29; cf. Deut. 28:32; Micah 2:1). But the converse may be true; since power is an essential element in the concept of deity, the term for deity may have been used in the transferred sense of “power.”»

  11. ^ Cfr.Louis Gardet. Allah in Encyclopaedia of Islam vol.1. Leiden, Brill, 1986, pag.406
  12. ^

    «il grafema rappresenta un punto da cui si irradiano delle linee in otto direzioni dello spazio (ovvero: le bisettrici dei quattro punti angoli del mondo): esso è quindi da riferire al concetto studiato da Eliade e indicato con l'espressione "ombelico del mondo", ovvero il concetto di un centro di irradiazione da cui scaturisce una realtà, così come il feto si forma attorno all'ombelico [...]. I significati "spiga", "grappolo" per il grafema AN corroborano questa interpretazione: infatti le spighe e il grappolo di datteri si dipartono rispettivamente dallo stelo e dal picciolo in maniera analoga al feto dell'ombelico (ovvero come appare il neonato rispetto al cordone ombelicale). [...] An era concepito come realtà divina celeste che costituiva la fonte, il principio delle divinità.»

  13. ^ Cfr. H.P. Sullivan. Īśvara in Enciclopedia delle Religioni, vol.9. Milano, Jaca Book, 2006, pag.185
  14. ^ Cfr. ad es. David Kinsley in Enciclopedia delle religioni, vol.9. Milano, Jaca Book, 2006 (1988) pag.86 e Rachel Fell Mcdermott. Encyclopedia of Religion vol.6. NY, Macmillan, 2006, pag. 3608
  15. ^ Nei versi 7 e 8 dello "Yašt ad Ahura Mazdā", contenuto nella Khordah Avestā, Ahura Mazdā elenca i nomi con cui egli può essere indicato:
    (AE)

    «âat mraot ahurô mazdå, fraxshtya nãma ahmi ashâum zarathushtra bityô vãthwyô thrityô ava-tanuyô tûirya asha vahishta puxdha vîspa vohu mazdadhâta ashacithra xshtvô ýat ahmi xratush haptathô xratumå ashtemô ýat ahmi cistish nâumô cistivå, dasemô ýat ahmi spânô aêvañdasô spananguhå dvadasô ahurô thridasô sevishtô cathrudasô imat vîdvaêshtvô pañcadasa avanemna xshvash-dasa hâta-marenish haptadasa vîspa-hishas ashtadasa baêshazya navadasa ýat ahmi dâtô vîsãstemô ahmi ýat ahmi mazdå nãma»

    (IT)

    «Così rispose Ahura Mazdā: "Il mio nome è Ahmi (Io sono). Io sono l'Interrogabile, colui che può essere interrogato, o santo Zarathuštra. Il mio secondo nome è Vanthvyō (il Pastore), il Datore e protettore del gregge. Il mio terzo nome è Ava-tainyō, il Forte che tutto pervade. Il mio quarto nome è Aša Vahišta, la perfetta santità, l'ordine e la rettitudine, la verità assoluta. Il mio quinto nome è Vispa Vohu Mazdadhātā, tutte le cose buone create da Mazdā, che discendono da Aša Cithra (Santo Principio). Il mio sesto nome è Xratuš, intelletto e divina saggezza. Il mio settimo nome è Xratumāo, colui che ha comprensione, che è posseduto dalla divina saggezza diffusa su tutto il creato. Il mio ottavo nome è Cištiš, conoscenza, divina intelligenza ricolma di conoscenza. Il mio nono nome è Cistivāo, possessore della divina intelligenza. Il mio decimo nome è Spānō, prosperità e progresso. Il mio undecimo nome è Spananghauhao, colui che produce prosperità. Il mio dodicesimo nome è Ahura, il Signore creatore della vita. Il mio tredicesimo nome è Sevišto, il più benefico. Il mio quattordicesimo nome è Vīdhvaēštvō, colui in cui non c'è danno. Il mio quindicesimo nome è Avanemna, l'inconquistabile. Il mio sedicesimo nome è Hāta Marēniš, colui che conta le azioni dei mortali. Il mio diciassettesimo nome è Vispa Hišas, l'onniveggente. Il mio diciottesimo nome è Baēšazayā, colui che risana o dona buona salute. Il mio diciannovesimo nome è Dātō, il creatore. Il mio ventesimo nome è Mazdā, l'onnisciente, colui che crea con il pensiero.»

  16. ^ Cfr. Senofonte. Memorabili I, 4.
  17. ^ «Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il Dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell'uomo» (Platone, Apologia di Socrate, 23 a).
  18. ^ Aristotele, Metafisica, VI, 1, 1026 a, 18-22.
  19. ^ Ivi, 2-21.
  20. ^ Ivi, 30-32.
  21. ^ Aristotele, Metafisica, Laterza, Roma-Bari 1982, pp.356-358.
  22. ^ Cfr. II, 31; in Mistici indiani medievali (a cura di Laxman Prasad Mishra). Torino, Utet, 1971, pag.236
  23. ^ Da intendere come "Anima Suprema", Dio.

Bibliografia

  • W. Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Jaca Book, Milano 1984.
  • Hans Kung, Existiert Gott?, R. Piper e Co. Verlag, München 1978, traduzione italiana: Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell'eta' moderna a cura di Giovanni Moretto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1979.
  • Mary Lefkowitz, Dèi greci, vite umane. Quel che possiamo imparare dai miti, a cura di G. Arrigoni, A. Giampaglia, C. Consonni, UTET Università, 2008.
  • Gerardus van der Leeuw, Phanomenologie der Religion (1933). In italiano: Fenomenologia della religione, Boringhieri, Torino, 2002.
  • W. Watts Alan, Il Dio visibile. Cristianesimo e misticismo, trad. di A. Gregorio, Bompiani, Milano, 2003.

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