Warren Beatty nasce come "fratello minore". Parente stretto cioè dell'arcifamosa Shirley MacLaine. Sono forse da ricercare qui i tratti di una star al contempo bella ma non ripiegata su se stessa, dalla durezza superficiale addolcita da fragilità e insicurezze. Le nevrosi del cabarettista di Mickey One (1965) si saldano con quelle del Clyde di Gangster Story(1967). Ma il mitra non gli rimane in mano. È cioè capace di affidarsi alle "mani" colte di Robert Altman (I compari) (1971) ma anche di scegliere di dirigere prima un remake di successo (Il paradiso può attendere, 1978) e poi un kolossal politico tratto dalle memorie di John Reed (Reds, 1981). È narrando le vicende di un testimone e sostenitore della Rivoluzione d'Ottobre che Beatty ottiene dalla prudente Academy l'Oscar per la miglior regia nel 1981. Ma questo non acquieta la sua voglia di sperimentare. È così l'ora di Dick Tracy (1990), fumetto che si fa film in un cromatismo esasperato che lo vede protagonista, circondato da comprimari come Madonna e Dustin Hoffman. In ogni film Beatty mette ormai tutto se stesso. È così per il ritratto dell'ideatore di Las Vegas Bugsy (1991) come per il senatore Bullworth(1998). Da sincero democratico ormai disilluso dalla politica Beatty racconta di come si possa denunciare tutta la falsità scoperchiando a ritmo di rap gli artifizi. Il rischio dello squilibrio è presente ad ogni sequenza. Come nella carriera di Warren, magnate inquieto e premio Oscar alla carriera non pacificato.