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Prove di democrazia a Baghdad, con benedizione vaticana


Prove di democrazia a Baghdad, con benedizione vaticana

Il papa riceve il premier iracheno Allawi e il patriarca cattolico caldeo incontra l’ayatollah sciita al-Sistani. La Chiesa incoraggia la via islamica alla democrazia. Un saggio di Vittorio E. Parsi

di Sandro Magister




ROMA – Giovedì 4 novembre, festa di san Carlo, papa Karol Wojtyla ha ricevuto il capo del governo provvisorio iracheno Iyad Allawi.

Il colloquio privato è durato circa dieci minuti. Dopo di che sono stati ammessi la moglie di Allawi, Thana, i ministri dello sviluppo Mehdi Hahedh e dei diritti umani Bakhtiar Amin, e il nuovo ambasciatore iracheno in Vaticano, il cristiano Albert Yelda.

Successivamente Allawi ha incontrato il segretario di stato, cardinale Angelo Sodano, e il ministro degli esteri della Santa sede, l’arcivescovo Giovanni Lajolo.

È evidentissimo, da tutto questo, che il Vaticano riconosce la piena legittimità del governo Allawi.

Ma c’è di più. Nel breve discorso pubblico rivolto all’ospite, Giovanni Paolo II ha incoraggiato “gli sforzi compiuti dal popolo iracheno per stabilire istituzioni democratiche veramente rappresentative e impegnate a difendere i diritti di tutti nel completo rispetto per le diversità etniche e religiose”.

C’è in queste parole la conferma di una dottrina ormai acquisita dalle autorità vaticane.

È la dottrina che sostiene la compatibilità tra islam e democrazia e ritiene doveroso aiutare la nascita e lo sviluppo di istituzioni democratiche nei paesi musulmani.

L’ultima riserva rispetto a questa dottrina risale allo scorso inverno, quando “La Civiltà Cattolica” – la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il controllo e l’autorizzazione della segreteria di stato – scrisse che la pretesa di impiantare in quei paesi la democrazia è “particolarmente offensiva per la comunità islamica”.

Da allora, però, tutti i pronunciamenti delle autorità vaticane in materia si sono espressi a favore della democratizzazione dei paesi musulmani. Nel caso dell’Iraq anche col sostegno di truppe alleate “in missione di pace”.

La parola democrazia compare di raro nei documenti vaticani riguardanti l’islam. Ma c’è due volte nel messaggio del 4 novembre del papa ad Allawi: altro indizio significativo.

Nel messaggio al primo ministro iracheno, Giovanni Paolo II ha inoltre auspicato il “contributo alla crescita della democrazia” da parte della comunità cristiana “presente in Iraq fin dai tempi apostolici”.

A questo proposito, è stato di grande importanza l’incontro avvenuto il 29 ottobre a Najaf tra il patriarca di Baghdad dei cattolici caldei, Emmanuel Delly, e l’ayatollah Ali al-Sistani, il più autorevole leader religioso dei musulmani sciiti, che in Iraq sono la maggioranza della popolazione. Al-Sistani è deciso fautore di un avvento pacifico della democrazia in Iraq. Dopo l’incontro, il patriarca Delly ha dichiarato all’agenzia “Asia News”: “Ci ha accolto con un caloroso ‘benvenuti’, ci ha ricevuto per un’ora e alla fine non ha nascosto la sua soddisfazione. Il nostro desiderio comune è quello di trovare una via per portare la pace e la tranquillità nel paese. Entrambi sappiamo che l’Iraq è ammalato, ma vogliamo trovare assieme le medicine per guarirlo. Abbiamo parlato come parlano due fratelli che si amano”.

Ma è davvero possibile una via islamica alla democrazia? In Occidente si è largamente affermata l’idea che la democrazia esiga ovunque il taglio dei riferimenti religiosi e che ogni Stato moderno debba essere di necessità secolare.

Nel saggio riportato qui di seguito Vittorio E. Parsi – professore di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano ed editorialista di “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale italiana – critica a fondo il “mito” della secolarizzazione come norma politica universale, e rivendica la centralità del fattore religioso nella costruzione di ogni moderna democrazia. Anche nei paesi musulmani.

L’articolo è apparso sull’ultimo numero della rivista dell’Università Cattolica di Milano “Vita & Pensiero” con il titolo: “Può esserci democrazia senza secolarizzazione?”. Eccolo quasi per intero:


Passaggio a Sud-Est: la via islamica alla democrazia

di Vittorio E. Parsi


Le relazioni tra Occidente e islam non stanno per nulla attraversando una fase pacifica. [...] Se, come occidentali, non ci attrezzeremo concettualmente per comprendere le difficoltà, la mentalità e le aspettative dei nostri vicini, e in tempi davvero rapidi, allora la guerra finirà con essere lo strumento cui faremo sempre maggior ricorso, magari chiamandola pudicamente con altri nomi e continuando a esecrarla. Affinché ciò non avvenga è determinante che si spazzi il campo da quelle illusioni che troppe volte hanno reso un dialogo sterile il dibattito su come affrontare la questione della democratizzazione del mondo islamico. [...]

Credo che la secolarizzazione sia una delle categorie di cui dovremo accettare la storicità, la non universalità.

All’interno della storia d’Occidente è indubbio che la secolarizzazione abbia costituito lo snodo centrale attraverso il quale è passata la pacificazione interna dei sistemi politici e la riduzione del tasso di violenza del sistema politico generale europeo. Significativamente, proprio al 1648 e alla pace di Westfalia, che pose fine alla Guerra dei Trent’anni, si fa risalire l’origine del sistema politico internazionale. Con quella pace si conclude, in Occidente, l’ultimo sanguinosissimo conflitto per l’egemonia condotto in nome (o con lo strumento) dell’uniformità religiosa.

Da allora il processo di secolarizzazione – la progressiva emarginazione della religione e delle sue gerarchie dal campo della politica – conosce in Occidente un punto di non ritorno. Come all’interno della comunità politica l’unità non potrà più essere minacciata in nome della diversità religiosa, così tra comunità politiche diverse il ‘cleavage’ religioso non potrà più essere impugnato come legittimo motivo di ostilità reciproca.

L’affermazione dello Stato è passata anch’essa per la secolarizzazione. La piena sovranità dello Stato non poteva tollerare che altri pretendessero di limitarne la legittimità, neppure in nome di autorità trascendenti. Per dirla con Hobbes, affinché un nuovo Dio mortale vivesse un altro doveva morire. E credo ci siano pochi dubbi sul fatto che lo Stato secentesco è quanto di più vicino si possa immaginare a una forma assoluta e quasi “secolarmente religiosa” di potere. [...]

Questa è l’esperienza storica occidentale, che lega in maniera inscindibile secolarizzazione, modernizzazione e Stato. L’aver saputo costruire questo incredibile artificio dello Stato sovrano moderno ha conferito all’Occidente quello straordinario vantaggio che è alla radice del suo successo, violento e strepitoso, nel contatto con le altre forme di organizzazione politica. Dal Seicento l’Occidente inizia la sua marcia espansionistica nel mondo, letteralmente annichilendo le altre forme politiche con cui viene a confrontarsi.

Data da allora anche l’inversione di tendenza nei confronti con il mondo musulmano. Se fino a quel momento l’impero ottomano, cioè la sua espressione politica di maggior esito, è ancora in espansione territoriale, dalla fine del Seicento in poi prende avvio la sua progressiva ritirata dal cuore dell’Europa. La sconfitta delle armate turche che assediano Vienna, 11 settembre 1683, e le vittorie delle armate asburgiche al comando di Eugenio di Savoia, 11 settembre 1697, segneranno una svolta che si concluderà solo con la distruzione dell’impero ottomano, oltre duecento anni dopo.

* * *

Ecco il primo mito da sfatare nel rapporto tra Occidente e secolarizzazione. In realtà, nel momento in cui si riconosce questo nuovo “noi collettivo”, si fissa un confine oltre il quale si colloca un “altro da noi” sempre più irrimediabilmente diverso. Mentre dentro l’Occidente si provvede a regolare, limitare e relativizzare i conflitti, si lascia però al campo della conflittualità assoluta tutto ciò che viene escluso da questo nuovo sistema. E il sistema politico internazionale non fa altro che prendere il posto della “Christiana Respublica”.

Non c’è traccia di alcun “multiculturalismo” nel tessuto di istituzioni e regole che l’Occidente disegna per tenere insieme il mondo. Per quanto poco ci possa piacere, dopo la lotta dei popoli contro il colonialismo (tra gli anni ’40 e gli anni ’60 del Novecento) e la lotta per l’eguaglianza razziale e per la giustizia economica (negli anni ’70 e ’80) siamo ora entrati in una terza fase, quella della lotta per la liberazione culturale dal dominio occidentale e per la riaffermazione delle civiltà e culture autoctone.

L’islam è una di queste. E la lotta contro le istituzioni e la geografia con cui noi occidentali abbiamo disegnato il mondo a partire dal 1648 rientra in questa terza ondata. Quando ci domandiamo perché il fondamentalismo faccia tanti proseliti, non dobbiamo dimenticare che esso è anche il frutto delle frustrazioni di cui il mondo islamico soffre tutte le volte che constata la sua scandalosa sottorappresentazione in ogni istituzione internazionale di qualche rilievo.

È un problema complessivo che riguarda tutti i paesi del cosiddetto Sud del mondo, ma che è particolarmente avvertito dai musulmani. Se solo consideriamo le Nazioni Unite val la pena annotare un fatto. Durante la Guerra Fredda la principale frattura del pianeta – quella tra Est e Ovest – era rappresentata all’interno del consiglio di sicurezza, che in tal modo diveniva un foro di confronto, di decantazione e di sviluppo per una concreta cultura del dialogo, della fiducia reciproca persino tra nemici irriducibili come erano il mondo libero e quello comunista. Oggi invece i rapporti tra Nord e Sud e quelli tra Occidente e paesi musulmani, se lasciati andare sistematicamente alla deriva o confinati in istituzioni prive d’effetti, rischiano di tramutarsi progressivamente in conflitti e scontri.

* * *

C’è poi un mito “domestico” della secolarizzazione, tutto interno all’Occidente, che va anch’esso svelato.

Nell’esperienza occidentale la secolarizzazione non solo consente l’affermazione dello Stato e la modernizzazione. Essa rappresenta anche il prerequisito d’obbligo dello sviluppo di due altre formidabili categorie politiche che hanno sfidato lo Stato, l’hanno trasformato in profondità e, alla lunga, l’hanno reso ancora più saldo: la nazione e la democrazia.

Nonostante tutti e tre questi concetti – Stato, nazione e democrazia – abbiano affascinato, in epoche diverse, praticamente tutte le élite riformatrici musulmane, è difficile non concordare sul fallimento della loro ricezione nel mondo islamico.

Se la principale giustificazione della secolarizzazione sta nel considerarla il passaggio obbligato per lo sviluppo dello Stato democratico e nazionale, allora agli occhi del mondo musulmano il sacrificio potrebbe non valere l’obiettivo. Sfortunatamente, infatti, Stato laico, nazione e democrazia sono stati già variamente sperimentati, sia pur in malriuscite edizioni, dalle società musulmane e si sono rivelati così fallimentari da risultare pochissimo attraenti, se il loro prezzo obbligato è la netta divisione tra politica e religione. In una società musulmana nella quale la religione è vista come il principale strumento per ritrovare una propria identità, è irrealistico immaginare che la secolarizzazione possa avere qualche chance di successo. O addirittura che possa anche solo essere proposta.

La via della secolarizzazione – pur intrapresa con entusiasmo dalle élite arabe riformiste e rivoluzionarie negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso – si è rivelata un insuccesso quasi totale proprio perché coincidente con una modernizzazione di matrice occidentale incapace di attecchire in profondità nelle società musulmane. Di fatto, la secolarizzazione ha semplicemente spossessato di un’identità tradizionale le masse e i ceti medi dei paesi musulmani, senza essere in grado di rimpiazzarla con qualche cosa d’altro.

È proprio la crisi di identità delle società musulmane ciò che oggi mette più a richio l’ordine mondiale e la pacificità di un sistema politico internazionale che comunque resta estremamente centrato sull’Occidente. Ed è proprio la natura identitaria di questa crisi – generata anche dalle pessime performance politiche ed economiche succedute all’indipendenza e alle rivoluzioni socialiste – che finisce col rendere così difficile trattare la questione islamica.

In realtà, per cercare una sorta di via islamica alla democrazia, il cui ritrovamento appare oggi più che mai cruciale, occorre guardare con un maggior relativismo al rapporto tra democrazia e secolarizzazione.

Trovare il “passaggio a Sud-Est” della democrazia è un compito per il quale dovremo tutti attrezzarci, senza superbia e nell’interesse comune.

La sola alternativa all’esportazione della democrazia con la guerra è proprio quella di elaborare nuove forme di esperienze democratiche che sappiano mettere a profitto le caratteristiche delle società musulmane, piuttosto che contrastarle o negarle, magari attraverso la loro occidentalizzazione. Se saremo capaci di trovare una via diversa rispetto a quella fin qui sperimentata dalla tradizione occidentale per la soluzione del rapporto tra politica e religione, avremo reso alla democrazia e alla pace il più grande servizio possibile.

* * *

Ma c’è un ulteriore elemento che dovrebbe spingerci a riconsiderare con minore alterigia il rapporto tra politica e religione. Si tratta della risurrezione a livello globale, anche dentro l’Occidente, della questione religiosa.

In realtà, potremmo oggi addirittura parlare di una de-secolarizzazione della società, se consideriamo quanto la religione sia riconosciuta come un fattore chiave nelle relazioni nazionali, transnazionali e internazionali. Personalmente ritengo che, a mano a mano che le nostre capacità tecnologiche raggiungeranno mete impensabili nella storia dell’umanità (si pensi alla genetica, o alle possibilità offerte dalla procreazione artificiale), parallelamente crescerà lo spazio che le società, anche le più laiche e secolarizzate, riconosceranno nuovamente al discorso religioso.

Di fronte a problemi non affrontati compiutamente dalla filosofia, solo le religioni sono in grado di offrire risposte senza tempo, e quindi sempre valide per tutti coloro che decidano di affidarvisi. Dove fissare un ragionevole confine tra politica e religione, quando le decisioni di un’assemblea politica devono determinare ciò che è giusto e consentito in campi tanto delicati? Come è pensabile precludere a una riflessione umana così a lungo esercitata come quella religiosa la possibilità di fare d’ausilio, quando dobbiamo decidere in coscienza di ciò su cui non sappiamo ancora dare un giudizio di valore certo? Sapremo fare a meno della religione, quando ciò che sappiamo tecnicamente fare supera di molto ciò che sappiamo di poter eticamente fare?

Questa risurrezione globale della religione è particolarmente evidente nella politica internazionale. Religione, nazionalismo ed etnicità hanno dimostrato di essere fonti durature di identità e di conflitto.

* * *

Ma proprio gli eventi degli ultimi decenni dovrebbero portarci a fare almeno due considerazioni.

La prima è che in Occidente abbiamo date per morte queste dimensioni della lotta politica un po’ troppo presto e un po’ troppo definitivamente. Se vogliamo continuare a essere in grado di costruire un discorso politico che non sia semplicemente rattrappito sull’esperienza storica occidentale, dovremmo avere il coraggio di considerare che la “postmodernità” irreligiosa della politica è più una tentazione intellettualistica che una realtà universale.

La seconda considerazione prende atto di come proprio la relativizzazione della portata etica dello Stato, soprattutto in Europa, riapre lo spazio per una nuova articolazione del rapporto tra politica e religione. [...]

Noi occidentali dovremmo smettere di interrogarci se l’islam sia compatibile con la civiltà occidentale, ignorando scambi passati e presenti e continue fertilizzazioni incrociate. Che ne siamo o meno consapevoli, porci una simile domanda implica [...] l’aver assunto arbitrariamente un’idea astratta di civiltà occidentale a norma universale. Non solo. Una simile pretesa si basa anche sulla fallace idea che le civiltà siano reciprocamente esclusive e opposte, mentre in realtà civiltà e culture si sovrappongono, si intersecano, hanno differenze e similitudini.

Nel rispetto delle differenze culturali non dovremmo però mai scordare che esiste un’aspirazione universale alla democrazia o, per lo meno, alla libertà. Ancor più che l’analisi delle dottrine e delle esperienze diffuse nel tempo e nello spazio, dovrebbe bastare il buon senso a farci ritenere che, in quanto essere ragionevole e ragionante, l’uomo aspiri a essere libero. Se c’è una cosa che accomuna il cammino dell’umanità sotto ogni latitudine è proprio questa incessante ricerca umana di sottrarsi, sia pur per vie diverse, all’arbitrio altrui in nome della propria libertà.

Certo, non sempre la dottrina democratica – cioè il pensiero politico che vede nel governo del maggior numero la forma preferibile di organizzazione politica – è stata la più popolare tra gli intellettuali, i governanti e persino i sudditi. E non v’è dubbio che nella sua forma a noi più vicina – quella che coniuga il principio di maggioranza con il rispetto delle minoranze – essa solo oggi incontra un saldo radicamento.

D’altra parte, però, proprio la sua diffusione trasversale alle epoche e alle civiltà – e le stesse alterne vicende della sua fortuna, altrettanto trasversali – fanno immediatamente piazza pulita di chi volesse vedere nell’Occidente il solo depositario del valore della democrazia.

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Il link alla rivista dell’Università Cattolica di Milano:

> “Vita & Pensiero”

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In questo sito, su islam e democrazia:

> L’islam mondiale ha un’oasi di democrazia: è il Mali (1.7.2004)

> Islam più democrazia. La dottrina Lewis fa breccia in Vaticano (4.5.2004)

> I gesuiti della “Civiltà Cattolica” non vogliono la democrazia in Iraq (13.2.2004)

Sull’ayatollah al-Sistani:

> Islam sciita. Il grande ayatollah Sistani vuole Najaf come capitale (4.3.2004)

E in genere sul mondo musulmano e l’Iraq:

> Focus su ISLAM

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8.11.2004 

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