Il futuro dei cristiani d’Iraq si decide sulla tomba di Alì
Il Vaticano si offre come mediatore per la battaglia di Najaf, città santa dei musulmani sciiti. È un gesto dimostrativo, ma con un obiettivo reale: la protezione dei cristiani
di Sandro Magister
ROMA – In un’intervista del 22 agosto alla radio pubblica italiana RAI, il cardinale segretario di stato Angelo Sodano è tornato a offrire la disponibilità della Santa Sede a mediare per far tacere le armi a Najaf, la città santa dei musulmani sciiti in Iraq.
Già il 17 agosto questa disponibilità era stata affermata in un comunicato ufficiale della sala stampa vaticana: ma “a condizione che esista davvero la volontà di imboccare vie pacifiche per la soluzione dei conflitti”.
In effetti, richieste pubbliche di una mediazione vaticana sono venute sinora solo da Moqtada al Sadr, il leader radicale asserragliatosi in agosto con un migliaio di suoi guerriglieri nel mausoleo di Alì ibn Abi Talib, genero del profeta Maometto e primo imam degli sciiti: non dal governo legittimo di Baghdad né dai comandi militari degli Stati Uniti. Ma di al Sadr il Vaticano diffida, come – e ancor più – diffidano di lui i componenti della marjia, il collegio dei più autorevoli capi religiosi sciiti di Najaf.
D’altra parte, al Vaticano preme dare di sé un’immagine super partes. E quindi interessa tendere la mano anche alle fazioni armate ribelli al governo legittimo.
La ragione principale che spinge il Vaticano a occupare questa posizione mediana è la protezione della comunità cristiana in Iraq.
Gli attentati terroristici che hanno colpito il 1 agosto cinque chiese e comunità cristiane a Baghdad e Mosul hanno prodotto molta preoccupazione ai vertici della Chiesa.
E questa preoccupazione è cresciuta dopo che il 18 agosto il ministro iracheno per le emigrazioni, la signora Pascale Icho Warda, essa stessa cristiana, ha dichiarato al quotidiano arabo “Asharq al-Awsat” che circa quarantamila cristiani hanno abbandonato l’Iraq nelle settimane successive agli attentati.
In Iraq i cristiani sono oggi tra i settecento e gli ottocentomila. Appartengono a due etnie diverse: gli assiri, in stragrande maggioranza, e gli armeni.
I cattolici sono seicentomila circa. Di essi, ottomila sono armeni di etnia e di rito. Tutti gli altri sono assiri: cinquecentocinquantamila di rito caldeo, quarantamila di rito siriaco e quattromila di rito latino.
Gli ortodossi sono centocinquantamila circa. Quelli di etnia assira sono nestoriani dell’antica Chiesa di Persia, centomila, oppure siriaci, quarantamila. Mentre gli armeni sono diecimila.
In quanto assiri, i cristiani dell’Iraq hanno come loro territorio storico il nord dell’Iraq attorno a Mosul, l’antica capitale dell’Assiria col nome di Ninive.
Nel 1933, due anni dopo l’uscita dall’Iraq degli inglesi, al fianco dei quali avevano combattuto, i cristiani assiri furono vittima di un massacro da parte degli arabi musulmani sunniti del centro del paese, appoggiati dai curdi.
Sotto il regime baathista e Saddam Hussein i cristiani godettero di un trattamento relativamente migliore. Ma Saddam rifiutò di riconoscere l’identità etnica degli assiri: li assimilò forzatamente agli arabi.
Oggi, col nuovo governo, gli assiri ritrovano la loro cittadinanza. Nel censimento in programma il 12 ottobre 2004 ogni iracheno potrà assegnarsi a una di queste cinque etnie: araba, curda, assira, armena e turcomanna.
Il futuro della comunità cristiana in Iraq è però soprattutto affidato a una stabilizzazione democratica del paese. Senza di questa, continueranno a emigrare. Ad esempio, l’80 per cento degli iracheni che oggi vivono negli Stati Uniti sono cristiani assiri.
E l’esito della battaglia di Najaf sarà determinante nel delineare l’assetto del nuovo Iraq.
È una battaglia, quella di Najaf, che deciderà i rapporti di forze tra i musulmani sciiti, che sono la maggioranza della popolazione irachena.
Ma c’è di più. Se al Sadr fosse sconfitto, se a Najaf vincesse la linea “quietista”, non teocratica, del grande ayatollah Sayyid Ali Husaini Sistani, se Sistani fosse riconosciuto come la massima autorità religiosa del mondo sciita non solo iracheno ma internazionale, e se nel vicino Iran prevalessero i pragmatici che appoggiano il governo legittimo di Baghdad e lo SCIRI, il maggior partito politico sciita iracheno, anche per i cristiani d’Iraq le prospettive sarebbero più incoraggianti.
E in Vaticano marcherebbe un successo la politica che punta a sconfiggere il terrorismo islamista tramite lo sviluppo della democrazia in Iraq e Medio Oriente. Quando necessario anche con l’invio di forze armate in “missione di pace”.
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Sul “quietismo” del grande ayatollah Sistani e sulla sua sfida alla teocrazia khomeinista, vedi in questo sito:
> Islam sciita. Il grande ayatollah Sistani vuole Najaf come capitale (4.3.2004)
E sulla politica della Santa Sede nei confronti dell’islam:
> Islam più democrazia. La dottrina Lewis fa breccia in Vaticano (4.5.2004)
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Quella che segue è un’analisi del ruolo di Najaf come città santa e capitale religiosa del mondo sciita, scritta dal musulmano Kahled Fouad Allam, algerino di nascita, cittadino italiano dal 1990, professore di islamologia nelle università di Trieste e di Urbino, studioso molto stimato e ascoltato anche in campo ecclesiastico. L’analisi è apparsa sul quotidiano “la Repubblica” del 13 agosto 2004:
Najaf la ribelle
di Khaled Fouad Allam
Najaf è una città considerata santa perché vi si trova la tomba di Alì ibn Abi Talib – cugino e genero del profeta Mohammed – primo imam degli sciiti, assassinato nel 661 davanti alla moschea di Kufa. Il mausoleo di Alì fu eretto nel X secolo, e vi furono poi costruiti accanto un monastero di dervisci e un ricovero per i pellegrini. Nella zona nord della città si trova la Valle della Pace, luogo ambito dagli sciiti che desiderano esser sepolti vicino alla tomba di Alì.
Najaf è un luogo importante non solo per la memoria storica dello sciismo, ma anche perché la città è da sempre, per antonomasia, la sede di formazione del clero sciita.
Gli sciiti arabi ritengono che la città santa di Najaf non meriti meno rispetto e interesse di quelli tributati dal mondo sunnita, ad esempio, all'università di Al Azhar al Cairo. Najaf è antica quanto il Cairo, e già nel IX secolo il filosofo arabo Tusi attribuiva notevole importanza scientifica alla sua scuola. La differenza è che, mentre la storia di Al Azhar è stata scritta, quella di Najaf sino a tempi molto recenti è rimasta quasi ignorata.
È qui che si ebbero gran parte dei mutamenti religiosi e ideologici del mondo arabo nella prima metà del Novecento. È qui che si è formato il moderno clero sciita. È a Najaf che si diventa mujtahid: colui che può interpretare il Corano. È qui che giungono, da tutto il mondo, studenti sciiti per scegliersi un maestro: e la scelta del maestro sarà determinante per il tipo di sciismo che in seguito da essi verrà trasmesso alla comunità.
Najaf è dunque, per definizione, il centro di formazione degli ayatollah; e se essa ha sempre rivaleggiato con la città santa di Qom in Iran, è però a Najaf che si sono formati i dignitari sciiti oggi più prestigiosi, oppure quelli più radicali, come l'ayatollah Mohammed Bakr al Sadr – parente di Moqtada al Sadr – il primo che nell'islam ha cercato di formulare un'alternativa al pensiero economico occidentale col suo celebre saggio "Iqtisaduna", “La nostra economia”.
Najaf è importante perché è qui che, nello sciismo, si sono elaborate le prime tesi sul rapporto fra islam e occidente e sul rapporto fra marxismo e islam. All'inizio degli anni Cinquanta qui si alzò la voce di un celebre ayatollah, allora marja supremo, ossia autorità indiscutibile, Mohammed Hussein Kashif al-Ghata, celebre giurista che nel 1954 pubblicò un saggio dal titolo: “I valori supremi sono nell'islam e non a Bhandum. Conversazioni con ambasciatori inglesi e americani”. Questo libretto fu scritto in risposta alla richiesta rivoltagli da un pastore americano, Carland Evans Hopkins, vicepresidente dell'Associazione Americana degli amici del Medio Oriente, perché si associasse ad altre personalità religiose cristiane e musulmane del mondo arabo per discutere con lui, nel villaggio di Bhandum in Libano, sui valori comuni del cristianesimo e dell'islam.
L'ayatollah al-Ghata rifiutò di partecipare all’incontro e rispose al pastore Hopkins secondo lo stile tradizionale dei dignitari religiosi: “Lei ha menzionato, al punto 4 del suo invito, il pericolo del comunismo per la società e il mondo di oggi, e questo è senza dubbio l'unico oggetto di quell'invocazione che volete recitare a Bhandum; ma voi gente d'America, voi gente d'Inghilterra, avete mantenuto un senso ai valori morali? E le vostre orribili azioni contro gli arabi e i musulmani di Palestina non sono cento volte più detestabili di quel comunismo che issate come uno spaventapasseri?”.
La città di Najaf è tutta contenuta in questo pensiero. Si potrebbe parlarne come di "Najaf la ribelle", quella che ha visto nascere le prime formazioni comuniste nel cuore della città, quella in cui l'ayatollah al-Ghata disse che il comunismo era entrato fin nelle case dei mujtahid. Najaf è anche la città che si oppone al crescere del comunismo arabo negli anni Cinquanta e Sessanta, ma che poi utilizza la retorica del marxismo e le organizzazioni del partito comunista per inventare un'alternativa a quel comunismo che metteva in pericolo lo sciismo arabo e quello iraniano. A Najaf, dal 1963 al 1978, visse in esilio l'ayatollah Khomeini; a Najaf fu elaborata l'ideologia della rivoluzione iraniana.
È per questo che Najaf fa paura al resto del mondo arabo: perché è un centro di pensiero. Ma quale pensiero nascerà sulle catastrofi di oggi?
È a Najaf che si è consolidato il sodalizio fra sciismo radicale iracheno e sciismo radicale iraniano: l'impatto di Khomeini fu importante perché egli insegnò in questa università e proprio qui, nel 1969, in una delle sue conferenze enunciò per la prima volta la teoria della Wilayat al-faqih, la teoria del governo dei teologi. Qui Khomeini e Mohammed Bakr al Sadr formularono quella costituzione iraniana che avrebbe sancito la rivoluzione khomeinista.
Lo sviluppo oggi di un modello sciita iracheno di stampo rivoluzionario rappresenta dunque un pericolo fondato, ma fino a un certo punto: perché il contesto odierno è diverso da quello degli anni Sessanta e Settanta: oggi Khomeini non c'è più, e se l'imam Moqtada al Sadr è l'idolo dei mostazafin, i sottoproletari sciiti che possono sembrare un forte blocco sociale, gli manca però il prestigio intellettuale: e questo nello sciismo rappresenta un limite, perché in esso l'autorità si conquista con la sapienza.
L'odierna assenza di pensatori rivoluzionari di prestigio è il punto debole di questo segmento dello sciismo iracheno, punto che può rivelarsi utile per la strategia iraniana, perché l'Iran può giocare su un forte capitale simbolico e sul prestigio di una rivoluzione che è ancora vivo nei mostazafin. I destini degli sciiti d'Iraq e di quelli d'Iran sono dunque strettamente intrecciati.
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24.8.2004