Vittoria mutilata
L'espressione vittoria mutilata fu coniata nel 1918 da Gabriele D'Annunzio[1] e adottata da nazionalisti, revanscisti e da una parte degli irredentisti[2] per denunciare la mancanza di tutti i compensi territoriali che ritenevano spettassero all'Italia dopo la prima guerra mondiale a seguito del Patto di Londra e dei termini dell'armistizio di Villa Giusti con l'Austria-Ungheria.
Secondo Gaetano Salvemini, la "Vittoria mutilata" fu un autentico mito politico[3], capace di catalizzare l'immaginario di parte della società e soprattutto dei reduci, ponendo le basi culturali e ideologiche del fascismo.[4][5]
Il contesto storico
modificaNel 1915 con il Patto di Londra le potenze dell'Intesa avevano promesso all'Italia in caso di vittoria il Trentino, il Tirolo fino al passo del Brennero (attuale Alto Adige), l'intera Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie: il confine includeva le cittadine di Castua, Mattuglie e Volosca e le Isole del Carnaro Cherso e Lussino. Fu garantito il dominio sulla Dalmazia settentrionale fino al porto di Sebenico, sulle isole prospicienti, sul porto di Valona, sull'isolotto di Saseno. L'Italia avrebbe potuto pretendere aggiustamenti a proprio vantaggio sui confini con i possedimenti francesi e britannici in Africa.
In caso di smembramento dell'Impero ottomano, l'Italia avrebbe ottenuto il bacino carbonifero di Adalia, il protettorato sull'Albania e la neutralizzazione di tutti i porti dalmati che fossero stati assegnati ai croati, ai serbi o ai montenegrini. La città di Fiume, invece, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro stato croato o dell'Ungheria, se la Croazia avesse continuato a essere un banato dello stato magiaro o della Duplice Monarchia[6].
Sul finire del 1917, a seguito della Rivoluzione d'ottobre e dell'uscita della Russia dalla guerra, questo accordo segreto fu rivelato dai bolscevichi. L'emergere dei suoi particolari provocò vivaci reazioni internazionali e in Italia, ove la sorte di Fiume, la cui popolazione urbana era in gran parte etnicamente italiana, fu vista con sdegno. Nel frattempo, gli Stati Uniti, entrati in guerra nell'estate dello stesso anno, chiarirono di non sentirsi vincolati a tale accordo - che essi non avevano sottoscritto - e lo stesso sarebbe stato di fatto denunciato nell'estate dell'anno successivo dal presidente Woodrow Wilson, con il suo celebre discorso dei Quattordici punti, il quale proclamava la fine della diplomazia segreta, la prevalenza del diritto all'autodeterminazione dei popoli nella definizione delle frontiere e metteva definitivamente in crisi secoli di politica di potenza europea, nella cui tradizione gli accordi erano stati concepiti.
Con il profilarsi - alla fine del conflitto - della totale dissoluzione dell'Impero Asburgico e della parallela nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, fu messo anche in discussione il principio secondo il quale l'Italia accettava la perdita di Fiume nei confronti di uno stato minore come avrebbe potuto essere quello croato: la nascita della Jugoslavia, infatti, riproponeva a oriente dell'Adriatico i medesimi problemi di sicurezza ed egemonia che tanto peso avevano avuto nello spingere l'Italia ad accettare di entrare in guerra.
Inoltre, altri accordi segreti stretti da inglesi e francesi con le nazionalità slave, prevedevano per queste ultime l'intera Dalmazia, che serbi e croati si affrettarono a occupare alla fine del conflitto, giungendo anche a sanguinosi scontri con le forze del Regio Esercito e della Regia Marina che ne avevano già preso il controllo al fine di assicurare il diritto italiano su quelle terre.
La conferenza di pace di Parigi
modificaIn questo complesso e mutato quadro politico internazionale, a Versailles, presso Parigi, i rappresentanti italiani Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino non furono in grado di esigere il pieno rispetto del Trattato di Londra e le rivendicazioni italiane a fronte della riluttanza - se non dell'ostilità - degli alleati dell'Intesa, preoccupati, ciascuno, dell'opinione pubblica dei propri paesi; mentre gli USA imponevano la visione wilsoniana, secondo la quale solo una guerra tanto sanguinosa e distruttiva lasciata senza vincitori avrebbe scoraggiato decisivamente la tentazione di tornare a ricorrervi in futuro.
In Italia, d'altro canto, il Regio Esercito vedeva con scarsa simpatia l'annessione della Dalmazia, ritenuta di difficile difesa in caso di guerra, e molti alti ufficiali, fra cui il capo di stato maggiore Armando Diaz, fecero pressioni affinché le rivendicazioni italiane si affievolissero[7].
Sul fronte diplomatico, non valsero le proteste e neanche l'argomento che un'Italia esposta alla "morte per fame", a causa della gravissima crisi economica e sociale che aveva colpito il Paese alla fine delle ostilità, avrebbe facilmente aperto la strada del successo a una rivoluzione bolscevica analoga a quella che aveva preso controllo della Russia nel 1917. La reazione infatti fu rabbiosa, ma non solo a sinistra: attorno a Benito Mussolini si mobilitò un movimento rivoluzionario che, il 23 marzo 1919, in Piazza San Sepolcro a Milano ebbe il suo battesimo come sansepolcrismo.
Visti vani i loro sforzi, i rappresentanti italiani a Versailles abbandonarono la conferenza per chiedere il sostegno del Parlamento (19 aprile 1919), ma l'unico esito di tale iniziativa fu quello di rendere ancor meno incomodo a inglesi, francesi e agli altri alleati, di attribuirsi i "mandati" sulle ex colonie tedesche e sui territori non turchi dell'Impero Ottomano. Solo dopo il ritorno della delegazione italiana furono riconosciuti, in sede di spartizione dei mandati (7 maggio 1919), dei compensi coloniali per l'Italia come previsto dal patto di Londra .[8][9]
Il dibattito internazionale ebbe gravi ripercussioni sull'opinione pubblica italiana. Irredentisti e nazionalisti alimentarono la polemica, accusando la classe politica di essere incapace di garantire quelli che ritenevano "i giusti confini" del paese. Secondo gli intransigenti, qualsiasi "rinuncia" al confine costituiva un tradimento dei seicentomila caduti in guerra.
Inoltre, la sorte di Fiume e Zara, la cui popolazione era prevalentemente italiana, commuoveva parte dell'opinione pubblica.
Il 10 settembre 1919, Francesco Saverio Nitti, succeduto a Orlando alla Presidenza del Consiglio, sottoscrisse il Trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci (quindi il confine del Brennero), ma non quelli orientali. Le potenze alleate, infatti, lasciarono che l'Italia e il neo-costituito regno dei Serbi, Croati e Sloveni definissero congiuntamente i propri confini. Immediatamente (12 settembre 1919), una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata da Gabriele D'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendone l'annessione all'Italia. Nitti, nonostante gli fosse confermata la fiducia del governo, scelse di dimettersi il 16 novembre, preoccupato anche dalle agitazioni sul fronte interno degli operai e degli agricoltori.
Lo scontento dell'opinione pubblica italiana
modificaL'insoddisfazione nasceva per la constatazione che l'Italia avrebbe dovuto rinunciare ad alcune delle terre promesse nel Patto di Londra[10] (segnatamente, la Dalmazia settentrionale) in base al "principio di nazionalità" invocato nei Quattordici punti di Wilson, ma contemporaneamente non avrebbe avuto la città di Fiume, non compresa fra le ricompense promesse all'Italia dall'Intesa nel 1915, ma abitata da oltre 25.000 italiani.
A questo si aggiungeva la situazione nebulosa delle pretese italiane in Anatolia (a fronte dei massicci guadagni territoriali franco-britannici in Medio Oriente), la questione dei compensi coloniali in Africa, che fu definitivamente risolta solo dopo molti anni, e la risistemazione dell'Adriatico meridionale ai danni dell'Italia, con l'assegnazione arbitraria del Montenegro[11] al nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e l'appoggio alle istanze albanesi di distacco dal protettorato imposto dall'Italia sul paese. Il leitmotiv della vittoria mutilata divenne allora uno dei principali temi di propaganda e rivendicazione del fascismo, che se ne servì per accusare i deboli governi postbellici e gli altri partiti di aver indebolito il paese e diffuso fra i lavoratori l'opinione che i diritti dell'Italia non fossero degni di adeguata difesa.
Le successive intese italo-jugoslave a Rapallo (12 novembre 1920), peraltro, furono solo parzialmente "rinunciatarie". I nuovi rappresentanti italiani (Giovanni Giolitti, Carlo Sforza e Ivanoe Bonomi) ottennero la fissazione della frontiera terrestre allo spartiacque alpino da Tarvisio al Golfo del Quarnaro, compreso il Monte Nevoso; l'assegnazione della città di Zara e delle isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa; la costituzione del territorio di Fiume in Stato libero indipendente, collegato all'Italia da una striscia costiera. Inoltre, la rinuncia italiana a Fiume e ai territori dalmati etnicamente slavi, non comprometteva il controllo italiano sul mare Adriatico, garantito dal possesso di Pola e di Zara, dalle isole succitate e dall'isola di Saseno. A Fiume stessa si prevedeva la costituzione di un consorzio italo-slavo-fiumano, per la gestione comune del porto, destinato a divenire "zona franca"[12].
Per l'opinione pubblica nazionalista e fascista, tuttavia, le intese di Rapallo non risolsero la questione; anzi, acuirono il problema, facendo apparire ancora più debole il governo e offrendo al fascismo un facile argomento utile a sostenere la propria causa e crearsi simpatie nel Paese. Gabriele D'Annunzio, convinto che mai Roma avrebbe attaccato Fiume, mantenne la sua posizione fino alla vigilia di Natale del 1920, quando il primo colpo di cannone sparato dalla corazzata Andrea Doria sventrò la sua residenza fiumana. Il 31 dicembre, optò per la resa, dopo che negli scontri con l'esercito italiano della settimana precedente cinquanta suoi uomini avevano perso la vita (Natale di sangue). Pochi mesi dopo lo smacco di Versailles, l'Italia dovette ritirarsi anche dalla costa turca occupata, mentre in Africa le venivano concesse solo alcune lievi rettifiche territoriali a fronte dei cospicui guadagni territoriali franco-inglesi a spese delle ricche colonie tedesche, sia pur sotto forma di Mandato della Società delle Nazioni.
La strumentalizzazione fascista
modificaA conferma dell'intuizione di Giacomo Matteotti "sugli effetti nefasti della vittoria conseguita con le armi a danno dei popoli vinti", la “vittoria” «si rivelò come un bidone vuoto, per cui il fascismo ebbe facile gioco a cavalcare il malessere collettivo inventando il mito della “vittoria tradita”»[13]: il fascismo fece di questo problema politico uno dei suoi cavalli di battaglia, spesso richiamando le sofferenze e i sacrifici patiti dal popolo italiano durante la prima guerra mondiale[14].
Un esempio è la manifestazione che venne organizzata al Vittoriano il 18 dicembre 1935, e che fu contemporaneamente replicata in tutta Italia, chiamata "oro alla Patria", che fu una raccolta di metalli utili alla causa bellica che fu necessaria in seguito alle sanzioni economiche all'Italia fascista decretate dalla Società delle nazioni in risposta all'attacco italiano contro l'Impero d'Etiopia, che portò alla conseguente guerra d'Etiopia[15]. La regina Elena, che donò le fedi nuziali della famiglia reale in una cerimonia officiata all'Altare della Patria, pronunciò un discorso ufficiale, un cui stralcio recita[15]:
«[...] Nell'ascendere il sacrario del Vittoriano unita alle fiere madri e spose della nostra cara Italia per deporre sull'altare dell'Eroe ignoto la fede nuziale, simbolo delle nostre prime gioie e delle estreme rinunce, in purissima offerta di dedizione alla Patria piegandoci a terra quasi per confonderci in ispirito coi nostri gloriosi Caduti della Grande Guerra, invochiamo unitamente a loro, innanzi a Dio, "Vittoria"»
Il messaggio era legato a uno dei messaggi politici del fascismo: la Vittoria riscattata dalla rivoluzione fascista e quindi non più "mutilata"[16].
Note
modifica- ^ Gabriele D'Annunzio, Vittoria nostra, non sarai mutilata!!, sul Corriere della Sera del 24 ottobre 1918
- ^ Revanche, in Dizionario di storia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
- ^ G.Sabbatucci, La vittoria mutilata, in AA.VV., Miti e storia dell'Italia unita, Il Mulino, Bologna 1999, pp.101-106
- ^ "...il movimento fascista sorse, crebbe, trionfò, e alla fine si stroncò, sul mito della "vittoria mutilata"...", G. Salvemini, Scritti sul Fascismo, vol. 3, Feltrinelli, 1974, p. 417
- ^ La "vittoria mutilata" richiama anche l'idea di mito e di azione presente nel pensiero di Georges Sorel
- ^ Si vedano la voce Trattato di Londra e il testo integrale del trattato su Wikisource
- ^ Le operazioni dell'Esercito Italiano durante la Grande Guerra, SME, Ufficio Storico
- ^ Silvio Crespi, Alla difesa d'Italia in guerra e a Versailles: (diario 1917-1919).
- ^ I compensi coloniali concessi negli anni dalla Francia furono: cessioni di porzioni del sahara di Algeria e Niger alla Libia (1919); trasferimento della Striscia di Aouzou dal Ciad alla Libia e della zona di Raheita da Gibuti all'Eritrea (1935). I compensi coloniali concessi negli anni dall'Impero Britannico furono: trasferimento dell'Oltregiuba dal Kenya alla Somalia (1924-1925) e delle oasi di Cufra e Giarabub dall'Egitto alla Libia (1925-1926); trasferimento del triangolo di Sarra dal Sudan alla Libia (1934). Inoltre, all'Italia fu concesso di annettere Castelrosso (già occupata dai francesi) al Dodecaneso (1920), le Isole Hanish (già occupate dai britannici) all'Eritrea (1929-1933), e di occupare per un certo periodo di tempo l'ex-concessione austriaca in Cina che confinava con quella italiana (1927). Il protettorato sull'Albania con il possesso del porto di Valona non venne contestato dagli Alleati ma fu abbandonato da Giolitti nel 1920 con il trattato di Tirana che lasciava all'Italia l'isolotto di Saseno e una protezione solo diplomatica sull'Albania. Il possesso pieno e definitivo di Libia e Dodecaneso fu confermato. L'occupazione italiana di territori Turchi nella Licia e di una parte di Costantinopoli anche fu riconosciuta, ma giunse a termine con l'Armistizio di Mudanya.
- ^ A metà d'ottobre 1918 il Regno Unito annunciò unilateralmente che non si sarebbe sentito vincolato dai precedenti accordi siglati con gli Alleati, a causa del mutato scenario internazionale determinato dall'ingresso nel conflitto degli USA e dalla fuoriuscita della Russia. Cfr. Michele Rallo, Il coinvolgimento dell'Italia nella Prima guerra mondiale e la "vittoria mutilata", Settimo Sigillo, 2007, p. 75
- ^ "Il Montenegro, paese alleato e vincitore, fu trattato alla stregua di un paese sconfitto, nemico e occupato", Anton Butega, Storia del Montenegro, Rubbettino, 2006, p. 360. Il Montenegro era inoltre legato all'Italia da motivi dinastici, essendo la figlia di re Nicola I, Elena, moglie di Vittorio Emanuele III e quindi regina d'Italia
- ^ Si veda la voce Narrazione degli Eventi sul sito del Comune di Rapallo Archiviato il 15 novembre 2011 in Internet Archive.
- ^ Domenico Gallo, Abbasso la guerra: pacifista intransigente, Il Lavoro, n. 14, 2024, p. 9.
- ^ Tobia, p. 85.
- ^ a b Tobia, p. 105.
- ^ Tobia, p. 104.
Bibliografia
modifica- Maria Grazia Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della Grande Guerra (ottobre 1918 - gennaio 1919), Edizioni di Storia e Letteratura, 1981
- Michele Rallo, L'intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale e la Vittoria Mutilata, Settimo Sigillo, 2007
- Paolo Soave, Una vittoria mutilata? L'Italia e la Conferenza di pace di Parigi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020
- Demiaux Victor, Dov'è la vittoria? Le rôle de la référence interalliée dans la construction rituelle de la sortie de guerre italienne (1918-1921), MEFRIM: Mélanges de l'École française de Rome (Italie et mediterranee modernes et contemporaines), 125, 2, 2013 (Roma : École française de Rome, 2013).
- Bruno Tobia, L'Altare della Patria, Il Mulino, 2011, ISBN 978-88-15-23341-7.