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il 15° è consecutivo 16° scudetto, la storia continua
 

La leggenda della Grande Inter

Ci sono solo due squadre, nella storia del calcio italiano, alle quale gli storici hanno abbinato l'aggettivo "grande": il Grande Torino e la Grande Inter. Nessun'altra formazione, pur protagonista di vittorie importanti, ha avuto quest'onore letterario, questa laurea eterna, questa corona al merito per qualcosa di straordinario. La Grande Inter è la madre di tutte le Inter: di quelle prima e di quelle dopo, di quelle che saranno. E' il simbolo, la poesia che tutti i tifosi conoscono a memoria: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Il tecnico non è semplicemente un allenatore, è "Il Mago" Helenio Herrera, colui che rivoluziona tutto nel calcio italiano: dalla preparazione atletica alla tattica, dalla richiesta d'ingaggi all'alimentazione degli atleti, dalla comunicazione al rapporto con il presidente. Dietro le quinte della squadra capace di vincere, in cinque anni, tre scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali troviamo Italo Allodi, il Richelieu della scrivania, il responsabile dell'organizzazione in Società e del calciomercato. Sopra tutto e tutti, nel cuore della leggenda, anima e motore della Grande Inter, padre e solo per amore nerazzurro padrone, Angelo Moratti, il Presidentissimo.

Il petroliere Angelo Moratti, classe 1909, nato a Somma Lombardo, figlio unico di una farmacista, sette zie tutte suore, sposato con Erminia Cremonesi, tifosa nerazzurra anche lei, e padre di sei figli (Adriana, Gianmarco, Maria detta Bedy, Massimo, Gioia e l'adottivo Natalino), acquista l'Inter sabato 28 maggio 1955 e diventa il quindicesimo presidente della storia del club. Sarebbe stata la moglie, presto riconosciuta come Lady Erminia, a trasmettergli la passione del calcio.
Moratti, sigaretta sempre accesa, uomo elegante e dal sorriso forte, è un industriale che, con impegno e umiltà, ha scalato la montagna del successo. L'Inter gli costa 100 milioni, così almeno raccontano i giornali dell'epoca, ma quello che lui regala all'Inter non ha prezzo. E' il valore assoluto della storia, della tradizione, dell'identificazione. Ancora oggi, in giro per il mondo, quando si dice Inter si pensa alla Grande Inter di Angelo Moratti. Eppure, all'inizio, la strada è tutt'altro che in discesa. La squadra, che ha chiuso il ciclo-Foni del doppio scudetto, per 5 anni vaga alla ricerca di un'identità, cambia spesso allenatore, non sale oltre un terzo posto malgrado l'arrivo dall'Argentina di uno dei più grandi talenti di tutti i tempi, Antonio Valentin Angelillo, cresciuto nel Boca Junior, attaccante più stile che fantasia, classe 1937, micidiale cercatore di gol: con 33 centri in 33 gare stabilisce nel '58-'59 il record delle marcature, ancora imbattuto, nei campionati a 18 squadre.

Angelillo, brillantina sui capelli e baffetti neri, è l'idolo dei tifosi di San Siro e della famiglia Moratti che intanto vede approdare in prima squadra il giovin Mario Corso e applaude le reti di Edwing Firmani. Ma è lui, Antonio Valentin, l'ago della bilancia e il pomo della discordia. Infatti, quando Angelo Moratti decide di ingaggiare come allenatore Herrera, allora tecnico in contemporanea di Barcellona e nazionale spagnola, la frattura si allarga sino al divorzio dal campione. Angelillo s'innamora di Attilia Tironi, in arte Ilya Lopez, ballerina in un locale notturno di piazza Diaz. Herrera, che aveva trovato un'Inter "lenta e senza ritmo" e che era un sergente di ferro ("il ritiro - confidava - l'ho inventato io"), non gradisce e dal campione un po' maledetto di Buenos Aires riesce a separarsi nella primavera del 1961. Una separazione (Angelillo va alla Roma, poi passerà anche al Milan, ma non sarà più il grande dei tempi nerazzurri) che traccia il confine.

Al posto di Angelillo arriva dalla Spagna il regista Luis Suarez, già Pallone d'Oro, campione europeo con la nazionale e protagonista nelle coppe internazionali con il Barcellona. Angelo Moratti, per accontentare Herrera che lo vuole a tutti i costi, deve pagare una cifra record per il calciomercato di allora: 250 milioni. Tanto per capirci, con questa cifra versata dall'Inter la società catalana costruisce la nuova tribuna del suo stadio. Ma Herrera ha visto giusto. "Luisito" (così lo chiamano i tifosi e gli amici ancora oggi) è l'uomo che mancava in una squadra che stava già cambiando mentalità, modulo, uomini. Suarez, galiziano di La Coruna, classe 1935, è l'epicentro del progetto. Intanto si fanno largo i giovani usciti dal vivaio, come Giacinto Facchetti, Sandro Mazzola, Gianfranco Bedin.

Il poeta mancino Mario Corso è il "Sinistro di Dio" per le sue punizioni "a foglia morta", il livornese Armando Picchi comanda da leader la rocciosa difesa e lo spogliatoio. Che Inter quell'Inter che stava diventando grande e che aveva superato anche lo scandalo beffa (a suo danno, ovvio) della Federcalcio sul rifacimento di una partita esterna con la Juventus (come atto di rivolta alla Figc, Moratti manda in campo a Torino la squadra dei giovani che perde 9-1; la rete nerazzurra è firmata Sandro Mazzola, il primo gol di una lunga cavalcata).

"Presidente, vinceremos todos y contra todos". Herrera deve stregare Moratti, in qualche modo. Il tecnico ha già rischiato in più occasioni l'esonero, il suo rapporto con il manager Italo Allodi è tormentato. La prima penna del giornalismo sportivo italiano, Giovanni Brera, critica spesso e volentieri l'allenatore nato a Buenos Aires, cresciuto a Casablanca, affermatosi in Spagna. Insomma, le difficoltà non mancano. Però è proprio in questa terra di nessuno, in questa palestra di sudore e addestramenti (sta per essere costruito anche il centro sportivo dell'Inter ad Appiano Gentile, in provincia di Como), che nasce la leggenda, attraverso una fusione passionale e molecolare tra Moratti, la squadra, Herrera, i tifosi, la città di Milano. Raccontano i testimoni: "Non è possibile descrivere quanto era bella la città grazie alla forza, alle idee e al calcio della società nerazzurra". C'è da crederci, senza dubbi. Nascono in questo periodo gli Inter Club, l'istituzione del tifoso organizzato. Nasce, appunto, la leggenda. L'Inter di Herrera vince il suo primo scudetto, stagione '62-'63, decisivo il successo a Torino sulla Juventus nel cosiddetto Derby d'Italia: 1-0 per i nerazzurri, rete-partita di Sandro Mazzola, classe 1942, figlio d'arte, attaccante con un repertorio di colpi e un'intelligenza ben oltre la media naturale, potente e veloce al tempo stesso, un'altra pagina eterna della lunga e inconfondibile storia nerazzurra (in tutto, in 418 partite con una fedeltà senza macchia, Mazzola realizzerà 117 gol in campionato, 20 nelle coppe europee, 24 in Coppa Italia). "Il Mago", per regalare a Moratti il primo titolo tricolore, schiera la seguente formazione: Buffon; Burgnich, Facchetti; Zaglio, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Di Giacomo, Suarez, Corso.

Giacinto Facchetti, nato a Treviglio nel luglio del 1942, diventa l'allievo prediletto del "Mago". Con un fisico da granatiere e una volontà di ferro, "rubato" all'atletica leggera, è l'Inter che si fa morale, rigorosa e puntuale nell'insegguimento dell'obiettivo. Facchetti è il primo terzino d'attacco della storia del calcio italiano, domina la fascia sinistra, marca e attacca contemporaneamente. Herrera lo proverà anche come attaccante per la facilità realizzativa e nel 1978, quando dirà stop al calcio giocato, Giacinto il "Gigante Buono" avrà realizzato, solo in campionato, un totale di 59 reti. Un atleta perfetto, un interista controtendenza rispetto al dna "pazzo": Facchetti, grazie al "Mago", è arrivato nell'Olimpo del calcio e vi è rimasto, figura di riferimento all'interno della Società (nel gennaio 2004 è stato nominato Presidente) e delle istituzioni calcistiche, nazionali e internazionali.

Anche dopo la conquista del primo scudetto, la prima richiesta che Herrera fa ad Angelo Moratti è quella di una cessione. Il ritornello si ripeterà ogni dodici mesi. Nel mirino del tecnico, Corso, veneto classe 1941, il campione con un piede solo (il sinistro), un artista del pallone. Troppo bravo tecnicamente, troppo geniale nelle giocate, per andare anche e sempre di corsa. Ma il Presidentissimo non cederà mai al ricatto del "Mago", e così vissero insieme felici e contenti. Unione favorita, senza dubbio, anche dai successi che la squadra comincia a raccogliere. Dopo lo scudetto parte una straordinaria e fortunata avventura in Europa che, mercoledì 27 maggio 1964, si conclude al "Prater" di Vienna, avversario il Real Madrid dei campionissimi, di Puskas e Di Stefano che affrontano la loro settima finale di coppa. L'Inter, al cospetto, sembra giovane, inesperta, ambiziosa e, al tempo stesso, indifesa. Invece, sotto l'apparenza, arde il grande fuoco nerazzurro; I tifosi partono da Milano con ogni mezzo possibile per raggiungere la capitale austriaca. Herrera, che da buon ex del Barcellona vive la finale quasi come un derby, prepara la gara in ogni particolare. Ed è trionfo. Il gregario Carlo Tagnin annulla Di Stefano, lo stopper Aristide Guarneri non lascia palla a Puskas, il grande capitano Picchi domina la scena difensiva, sul finale del primo tempo Facchetti lancia Mazzola che porta in vantaggio i nerazzurri. Nella ripresa 2-0 del centravanti Aurelio Milani, poi accorcia il Real con Felo, chiude Mazzola con una rete capolavoro. L'Inter è campione d'Europa. Milano e l'Italia intera scendono in piazza per celebrarla. Ed è solo l'inizio...

E' il 9 settembre 1964, l'Inter va alla conquista del mondo. L'avversario, per la finale della Coppa Intercontinentale, è l'Independiente di Avallaneda, il club campione del sudamerica. Si gioca in uno stadio "bolgia", Herrera ha riscaldato gli animi ("non me ne frega nulla dei tifosi avversari"), i nerazzurri marcano "hombre a hombre", non concedono metri agli argentini allenati da Manuel Giudice, scagliano la palla in tribuna davanti a ogni possibile pericolo. La resistenza umana e atletica dell'Inter campione d'Europa viene annullata dall'errore del portiere Sarti, una papera clamorosa: Independiente 1-Inter 0. Si riparte a San Siro, due settimane dopo, il 23 settembre. Non c'è partita. I nerazzurri dominano, trainati dal pubblico: 2-0, reti di Mazzola e Corso. Per assegnare la Coppa Intercontinentale serve una terza gara, la "bella". Si gioca a Madrid, il 26 settembre, stadio "Santiago Bernabeu", il tempio del Real. Herrera sostituisce Mazzola con Peirò, Burgnich con Malatrasi, Jair con Domenghini. Scelte discutibili. Infatti i nerazzurri soffrono e rischiano, alla fine dei tempi regolamentari il migliore in campo risulta Sarti, che para tutto e di più. Notte drammatica, senza fine. Si racconta di una Milano in religioso silenzio, in attesa di notizie da Madrid. Tempi supplementari, fatica immane per gli atleti, campo pesante, gara spezzettata. Serve un colpo di genio per rompere l'equilibrio. E chi, se non Corso, può inventare? Infatti, come volevasi dimostrare, l'Inter passa in vantaggio con il suo "Mandrake" al minuto numero 6 del secondo tempo supplementare: lancio di Milani, cross di Peirò, controllo di petto e sinistro vincente di Corso. E' il trionfo, l'Independiente s'inchina, il popolo nerazzurro scende in piazza: Inter sul tetto del mondo.

Il 1965 è l'anno più glorioso della storia dell'Inter. Dopo aver vinto la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale, i nerazzurri hanno lasciato il titolo al Bologna in un avvelenato finale di campionato. Per la prima volta nel calcio compare il termine doping e, per la prima volta, il titolo viene assegnato attraverso una gara di spareggio, che i nerazzurri perdono a Roma il 7 giugno 1964. Angelo Moratti è furibondo, la Figc ancora una volta ha remato contro l'Inter. Bisogna essere veramente più forti di tutti e di tutto, come sostiene Herrera, per far trionfare la giustizia sportiva. E così, nel 1965, l'Inter s'inventa un triplice capolavoro. Primo: vince lo scudetto, in rimonta sul Milan di Gino Viani. Il 31 gennaio 1965 i rossoneri battono il Mantova e in classifica hanno 7 punti di vantaggio sui nerazzurri, sconfitti a Foggia. Il 28 marzo 1965, al termine di uno dei derby più fantastici mai visti a San Siro, il Milan è battuto (5-2) e conserva un solo punto di vantaggio. Herrera, che ha lanciato in squadra il mediano Gianfranco Bedin, classe 1945, ci riprova con un altro giovane, il centravanti Sergio Gori detto "Bobo", classe 1946, figlio di uno dei più importanti ristoratori toscani di Milano. E proprio Gori, dopo il vantaggio firmato Suarez, stende la Juventus a Torino, mentre il Milan perde in casa con la Roma. Si va avanti così, lotta gomito a gomito, sino al 6 giugno, quando i rossoneri perdono a Cagliari e i nerazzurri pareggiano in rimonta 2-2 con il Torino a San Siro. Il gol tricolore, su rigore, è di Mazzola, capocannoniere del torneo con 17 reti. La formazione: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Domina la condizione atletica dell'Inter che, mentre prepara la vittoria del nono scudetto, rivince la Coppa Campioni.
E' questa la seconda impresa del 1965. In Europa la squadra di Herrera vola senza problemi sino alla semifinale con il Liverpool. Cade nella gara d'andata in Inghilterra (3-1) e non sembra in grado di recuperare la qualificazione. Invece, ancora una volta, la leggenda si materializza sul campo bagnato di San Siro, il 12 maggio, davanti a 80mila spettatori per un incasso di 161 milioni di lire. Punizione vincente di Corso, rete fotografia di Joaquim Peirò che ruba la palla al portiere inglese Lawrence (stava palleggiando con le mani), 3-0 di Facchetti. La finale della Coppa dei Campioni si disputa a Milano, il 27 maggio. Tempesta di pioggia sulla città nel pomeriggio, temperatura autunnale, stadio esaurito, gara equilibrata contro i portoghesi del Benfica guidati dal grande Eusebio, Inter in maglia bianca con striscia nerazzurra sul petto. Decide, al minuto numero 42 del primo tempo, una rete di Jair: la palla passa tra le gambe del portiere Costa Pereira. Il settimanale "Milaninter" titola: "Inter figlia di Dio". Diventerà uno slogan.

Terzo capolavoro targato 1965. La conquista della seconda Coppa Intercontinentale. L'avversario è ancora l'Independiente. A differenza del precedente confronto, stavolta la gara d'andata si disputa a San Siro. E' mercoledì 8 settembre. Gli argentini non hanno neppure il tempo di respirare. Herrera ha chiesto ai nerazzurri di prendere l'avversario per il collo. Peirò, dopo 8 minuti, è già in gol; Mazzola, con una doppietta, mette il timbro al limpido 3-0. Una settimana dopo si gioca in casa dell'Independiente, che prova a buttarla in rissa: Suarez e Sarti vengono colpiti da alcuni oggetti lanciati dalle tribune, Jair è martoriato di falli. Una traversa e delle buone parate di Sarti certificano il pareggio e dunque la vittoria della seconda Coppa Intercontinentale. Titolo della "Gazzetta dello Sport": "Pari coraggioso dell'Inter: è campione". Ricorderà l'avvocato Prisco di aver seguito la gara in tribuna d'onore, protetto dagli alpini della sessione di Buenos Aires.

La Grande Inter vince il terzo scudetto, il secondo consecutivo, al termine del campionato '65-'66. Forse il successo meno complicato per la squadra di Angelo Moratti e il "Mago" Herrera. Qualche timida opposizione da parte di Milan e Bologna, ma nulla più. I rossoneri si arrendono nel derby, che i nerazzurri vincono 2-1, con una grande rete di Bedin (che annulla Rivera) e un gol di Domenghini. L'Inter è campione con 50 punti, 4 di vantaggio sul Bologna. La formazione tipo: Sarti; Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso.

Non c'è notte senza alba, non c'è sogno senza risveglio. Il ciclo della Grande Inter si conclude un anno dopo, il 1° giugno 1967 nella fatal Mantova. I nerazzurri, che hanno già perso sfortunatamente la Coppa dei Campioni a Lisbona contro il Celtic, recuperano Suarez dall'infortunio e si presentano con Cappellini centravanti. Traversa di Mazzola, l'Inter è stanca, ma vuole mantenere il punto di distacco sulla Juventus (48 a 47) e comanda la partita. Un giovane Dino Zoff, portiere rivelazione del campionato, salva in più occasioni il Mantova. Al minuto numero 4 della ripresa il pasticcio: un tiro di Di Giacomo, l'ex di turno, inganna Sarti. La palla scivola tra le mani del portiere nerazzurro e va in rete. Una beffa: Sarti, due anni dopo, firmerà per la Juventus alla quale, in pratica, regala lo scudetto. E' infatti inutile l'assalto finale dell'Inter, l'arbitro padovano Francescon nega un rigore a Mazzola e caccia dal campo un furente Corso. Negli spogliatoi volano cazzotti e parole grosse, ma il titolo è della Juventus. Angelo Moratti, seppur deluso, trova la classe delle parole per scrivere la parola fine a una grande storia di calcio e passione: "Siamo stati grandi quando si vinceva, cerchiamo di essere grandi anche ora che abbiamo perduto. Forse siamo rimasti troppo tempo sulla cresta dell'onda. E tutti a spingere per buttarci giù. Ora saranno tutti soddisfatti". E' solo la verità.

 


 
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